Anche Versace rinuncia alla “sabbiatura” dei jeans, dopo le pressioni della campagna Abiti puliti, che denuncia gli effetti deleteri di questa procedura sulla salute dei lavoratori. La sabbiatura, o sandblasting, è davvero una pratica paraddossale: per far sembrare vecchi e consunti dei pantaloni nuovi e immacolati, i grandi marchi dell’abbigliamento espongono gli operai al rischio di ammalarsi di silicosi, la tipica patologia dei minatori. Per dare al tessuto denim l’effetto stinto e vissuto, la sabbia viene spruzzata sui pantaloni con compressori a mano.
Soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove ormai è delocalizzata gran parte della produzione, questo avviene senza le necessarie precauzioni, dalle mascherine agli impianti di areazione sufficientemente potenti da pompare fuori la polvere di di silicio. In Italia, almeno in teoria, le misure di sicurezza sono maggiori, anche se non si può avere la certezza che siano sempre rispettate. “L’attività di sabbiatura dei jeans è particolarmente esposta al rischio silicotigeno”, conferma uno studio dell’Inail sulle aziende tessili della provincia di Pesaro-Urbino, la “Jeans Valley” italiana.
Abiti Puliti è l’articolazione italiana della Clean Clothes Campaign, attiva in 15 paesi europei e, soprattutto, in contatto con circa 250 associazioni che lavorano nei paesi caldi della della delocalizzazione, dal Sudamerica al Sudest asiatico. Versace è finita nel mirino nel 2010 e nei giorni scorsi aveva dovuto disattivare gli interventi nella pagina Facebook aziendale per i troppi post di protesta sul sandblasting. Il 20 luglio la grande casa di moda ha deciso di cedere alla pressione e di diffondere un comunicato ufficiale: “In seguito a una verifica, che ha confermato che nessun fornitore utilizza la tecnica di sabbiatura del jeans, Versace ha deciso di agire in modo ancora più proattivo, unendosi ai leader del settore che sostengono l’eliminazione della sabbiatura come pratica di lavorazione”.
Tra i marchi che invece la utilizzavano e ora vi hanno rinunciato ci sono Levis e H&M, e tra i sottoscrittori dell’appello di Abiti puliti figurano marchi blasonati come Benetton, Burberry,Carrera Jeans, Esprit, Gucci, Replay e altri. Si sono invece negati a ogni dialogo, secondo i promotori della campagna, Armani, Dolce e Gabbana, Roberto Cavalli.
Resta comunque la “nota dolente dei controlli”, commenta Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale di Abiti puliti. “Non è possibile avere la garanzia al cento per cento che gli impegni siano rispettati da tutti. Le verifiche vanno fatte nell’arco di un anno e più, ma la nostra forza sta nella fitta rete di corrispondenti nei paesi produttori, che ci segnalano i problemi e danno voce a lavoratori che altrimenti nessuno ascolterebbe. Anzi, che nemmeno avrebbero la possibilità di parlare”.
La silicosi provocata dalla sabbiatura dei jeans è stata diagnosticata a un lavoratore per la prima volta nel 2005 in Turchia. Le associazioni locali affermano di aver censito 46 decessi, ma la platea degli esposti al rischio sarebbe di 8-10 mila persone. Cina, Bangladesh, Pakistan, Messico edEgitto sono i paesi dove la lavorazione contestata è più diffusa.
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Anche Versace rinuncia alla “sabbiatura” dei jeans, dopo le pressioni della campagna Abiti puliti, che denuncia gli effetti deleteri di questa procedura sulla salute dei lavoratori. La sabbiatura, o sandblasting, è davvero una pratica paraddossale: per far sembrare vecchi e consunti dei pantaloni nuovi e immacolati, i grandi marchi dell’abbigliamento espongono gli operai al rischio di ammalarsi di silicosi, la tipica patologia dei minatori. Per dare al tessuto denim l’effetto stinto e vissuto, la sabbia viene spruzzata sui pantaloni con compressori a mano.
Soprattutto nei paesi in via di sviluppo, dove ormai è delocalizzata gran parte della produzione, questo avviene senza le necessarie precauzioni, dalle mascherine agli impianti di areazione sufficientemente potenti da pompare fuori la polvere di di silicio. In Italia, almeno in teoria, le misure di sicurezza sono maggiori, anche se non si può avere la certezza che siano sempre rispettate. “L’attività di sabbiatura dei jeans è particolarmente esposta al rischio silicotigeno”, conferma uno studio dell’Inail sulle aziende tessili della provincia di Pesaro-Urbino, la “Jeans Valley” italiana.
Abiti Puliti è l’articolazione italiana della Clean Clothes Campaign, attiva in 15 paesi europei e, soprattutto, in contatto con circa 250 associazioni che lavorano nei paesi caldi della della delocalizzazione, dal Sudamerica al Sudest asiatico. Versace è finita nel mirino nel 2010 e nei giorni scorsi aveva dovuto disattivare gli interventi nella pagina Facebook aziendale per i troppi post di protesta sul sandblasting. Il 20 luglio la grande casa di moda ha deciso di cedere alla pressione e di diffondere un comunicato ufficiale: “In seguito a una verifica, che ha confermato che nessun fornitore utilizza la tecnica di sabbiatura del jeans, Versace ha deciso di agire in modo ancora più proattivo, unendosi ai leader del settore che sostengono l’eliminazione della sabbiatura come pratica di lavorazione”.
Tra i marchi che invece la utilizzavano e ora vi hanno rinunciato ci sono Levis e H&M, e tra i sottoscrittori dell’appello di Abiti puliti figurano marchi blasonati come Benetton, Burberry,Carrera Jeans, Esprit, Gucci, Replay e altri. Si sono invece negati a ogni dialogo, secondo i promotori della campagna, Armani, Dolce e Gabbana, Roberto Cavalli.
Resta comunque la “nota dolente dei controlli”, commenta Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale di Abiti puliti. “Non è possibile avere la garanzia al cento per cento che gli impegni siano rispettati da tutti. Le verifiche vanno fatte nell’arco di un anno e più, ma la nostra forza sta nella fitta rete di corrispondenti nei paesi produttori, che ci segnalano i problemi e danno voce a lavoratori che altrimenti nessuno ascolterebbe. Anzi, che nemmeno avrebbero la possibilità di parlare”.
La silicosi provocata dalla sabbiatura dei jeans è stata diagnosticata a un lavoratore per la prima volta nel 2005 in Turchia. Le associazioni locali affermano di aver censito 46 decessi, ma la platea degli esposti al rischio sarebbe di 8-10 mila persone. Cina, Bangladesh, Pakistan, Messico edEgitto sono i paesi dove la lavorazione contestata è più diffusa.
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