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Caro Diario

Da Paride

Caro Diario,

da oggi ti terrò. Raramente ti parlerò di cose utili o precise, o di fatti accaduti durante il giorno attendendo col fervore e il cuore di una sedicenne innamorata di essere confidate a te la sera, ma non si sa mai. Cominciamo.

Vorrei che tutti la smettessero d’amarmi. Io non mi amo. Io non sto bene, sono distaccato dal vostro doppio errare. Io vedo le trame dell’universo ogni volta che cambio le lenzuola del mio letto, e metto quelle piene di spirali arancioni. Io ho il grigio che mi invade gli occhi quando mi alzo troppo di fretta e il mio equilibrio cede, vorrei fumare in camera e a letto, e mangiare sempre, ma odio il mio corpo già adesso, mi conficcherei delle siringhe per aspirare il grasso in varie parti del corpo e la puzza di fumo mi fa venire la nausea la notte. E ho una panca Ab Pro che farebbe miracoli solo la usassi, ma non la uso, il mondo non è degno di avermi perfetto. Non ho obbiettivi, solo sogni che non comprenderebbero un provare a realizzarli. Io mi appoggio sempre più spesso al balcone della cucina, della mia nuova casa, al settimo piano di un palazzo della Garbatella, a Roma, al sesto, proprio sotto di me, ci sta una pazza con cose luride e molto interessanti, depositate in un ordine da discarica abusiva nel suo balcone, che si vedono se ti sporgi, e io mi sporgo. C’è un vecchio baule blu, vorrei proprio guardarci dentro. Una volta ne trovai uno bellissimo in una vecchia casa del mio paese, Milici, in Sicilia. Scrissi un poesia su quel baule, mi piaceva molto:

“Un baule vecchio di cent’anni, ovvero patatine e pop-corn”
Ora mi metto a studiare carte e lettere e altre cose antiche di cent’anni
le leggo e le osservo sì perché ho deciso ho capito
La poesia mi fa troppo male fa troppo male
Lo sai tu piccola bimba lunatica?

Dentro ci trovai una piccola fortuna in lettere, foto e atti di proprietà risalenti a prima delle grandi guerre, e una vecchia banconota che se non fosse stata bruciacchiata in un angolo, mi avrebbe reso ricchissimo, per un quindicenne. Si sente sempre una fortissima puzza di alcool etilico, credo proprio lo cosparga ovunque e di continuo, e credo che ormai le sue narici siano atrofizzate, o ubriache, molto più delle mie. Ieri mi sono appoggiato e, mentre cercavo di immaginare la data di morte e il nome del tizio quasi completamente calvo che impazziva col blocca-disco del suo scooter rosso, come quasi avessi gli occhi di uno Shinigami, ho pensato “21 Maggio 1988” e sicuramente c’è almeno una probabilità che non mi sbagliassi. Vale a dire che era già morto e non lo sapeva. Eppure continuava a spazientirsi nel suo purgatorio fatto di cera d’api, pappa reale, cheratina, scooter rossi, catene, donne irraggiungibili, chiavi perse, vicini cortesi. C’era una puzza orrenda, l’alcool mi saliva alle narici, sostava nel cervello e da lì, imboccava un percorso fluido e sconosciuto che scendeva fino alle mie radici profonde. E io sentivo di star bene e nel contempo sapevo che era solo perché mi immaginavo cadere giù e spiaccicarmi al suolo, disintegrarmi in ogni atomo, e questo senso di quiete mi impediva di farlo. Ma banalmente, chi sceglie o sceglierebbe questo destino, ha solo una grande nostalgia di un antica e perduta capacità migratoria. Infatti, dopo mi immaginavo ricompattarmi come se mi fossi teletrasportato direttamente da un vecchio telefilm di fantascienza degli anni sessanta, nel mio giardino, a qualche metro dal suolo, a levitare sfiorando con i palmi gli aghi del pino gigante che mi copre la visuale di qualcuna delle finestre che mi piacerebbe spiare dal mio balcone, sapesse voi quanti schiaffi e tette e vecchie, silenzi, sigarette, caffettiere. Anche l’altro ieri mi ero appoggiato e come in un lapsus che ti lascia il culo a terra insieme alla faccia, capì di non potere amare. Certo, chissà quante volte l’avevo già detto o pensato, anche davvero. Ma era diverso stavolta. Tutto stavolta era semiliquido, naturale, religioso, improvviso, uno stato alterato di coscienza. Guardando una passante troppo bella, avrei immaginato succedesse, prima o poi. Invece niente, successe che guardavo la tv di un’altra vita, casa, palazzo o le mie dita con in mano una sigaretta, non ricordo. Se guardavo la sigaretta, sarà stata rollata con meno tabacco, sempre così è da qualche tempo. Le donne troppo belle io le reputo pericolose, perché forse per la seconda volta in vita mia, me ne potrei innamorare. E “Io Mio” decisamente è un amore malato d’odio nei confronti di chimere conosciute perché sepolte troppo in vista, tanto da renderle incomprensibili come illeggibili delle lettere di una poesia di Cesare Pavese scritta il 21 Aprile 1929, presente in un libro che ti viene aperto e sbattuto in faccia fino a soffocarti la vista del resto, eppure così tante parole limpide ti starebbero davanti, agli occhi, cioè, dentro. Non amatemi mi create problemi, perché non sono cattivo, sono tanto buono e, proprio non riesco a dirvelo che non contate niente. Ci sono solo io e il mio grande sonno. Ci sono solo io e la grande fuga. Anzi no, forse è più corretto parlare di rientro.


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