Penso che mi volesse bene, io le volevo bene. Ma non avevamo tempo per queste smancerie. Noi facevamo pensieri "alti", pensavamo ai destini del mondo e alle domande della scienza. E ce lo dicevamo prevalentemente in silenzio. Era la mia prof, ma non l'ho mai chiamata per cognome. Per me era solo Catherine, un nome affascinante, che scivolava ruvido e leggero sulle labbra, un nome che sembrava uscito dalla lira di Narciso da un altro mondo.
Catherine era molto bella. Aveva gli occhi verdi, le palpebre di seta. Il naso dritto, le labbra rosse, ricche di pieghe carnose. Aveva un sapore di pesca. La pelle lucida, diafana, che sembrava potessi guardarci attraverso. Catherine era bassa, persino un po' tozza, e si vestiva con noncuranza. Era proprio francese.
Catherine era una straniera, in ogni senso. La vedevi, in mezzo agli altri docenti, aggirarsi come portando messaggi da un altro pianeta. (Non aveva il cellulare e aveva impedito a chiunque di regalarglielo. Erano già i tempi di internet, dell'ipercomunicazione, il cellulare lo avevano tutti, anche i 12enni. Lei no). La detestavano più o meno tutti, perché nessuno la capiva. Non parlava il loro linguaggio, non ammiccava, non sgomitava, non compiaceva nessuno, non faceva nulla per risultare simpatica. Sono sicura che fra sé e sé rideva di loro. Ti guardava sempre con quel suo sguardo interrogatore, sempre perplessa, sempre nascondendo un non meglio specificato sorriso. C'era una sottile forma di derisione perenne nella sua espressione. Come se fosse perfettamente cosciente che tutto è provvisorio e mortale, e che la pretesa delle cose umane di essere importanti andava ridimensionata. Ma n iente era banale, per Catherine. Ogni situazione era un'occasione per osservare, per notare, prendere appunti e interrogarsi. Per scovare i legami invisibili tra le cose. Catherine era una donna di scienza che faceva una vita da impiegata. In cinque anni non l'ho mai vista arrabbiata. Era una stoica, una vera stoica, ed era di una curiosità immensa. So che passava le giornate sui libri, che per imparare l'italiano aveva letto i
Promessi sposi senza conoscere una parola. Aveva due figli, e per studiare durante il giorno si era procurata dei sofisticati tappi per le orecchie, che ogni tanto portava anche a scuola. La vedevi sempre così, col viso su un libro e il dito puntato su qualche riga particolare - con una mano reggeva il mento, mentre si perdeva nello sguardo assorto in un punto invisibile, in cui avrei voluto sbirciare.
Mi osservava spesso, forse aveva capito che ero un po' strana, un po' - solo un po' - come lei. E anche io la osservavo. L'ora di francese consisteva nello spegnere il chiasso dell'aula e studiarsi a vicenda. Era come se ci domandassimo: anche tu sei straniera? cosa dobbiamo dirci? nulla, non dobbiamo dirci nulla. C'era qualcosa di informe che ci pigliava per il collo, a cui noi non opponevamo resistenza. Non saprei dire esattamente cosa.
Tutto cominciò con l'etimologia della parola nausea. Mi invitò a prendere il dizionario etimologico in biblioteca. Rivelazione: nella radice di nausea c'era la parola nave. Ci ho voluto subito mettere Sartre, così, di prepotenza. Lei era d'accordo. Ma non sapeva - o forse sì? - che avevo preso l'esistenzialismo troppo sul serio. Penso che lo avesse capito, e la cosa le faceva tenerezza. Ma voleva tacitamente distogliermene: dovevo, piuttosto, interessarmi alla materia, agli atomi, ai legami invisibili tra tutte le cose. Non prese molto bene la mia scelta di studiare filosofia.
Mi prestava i suoi libri, e ricordo che guardai Andare a scuola era un po' meno angosciante per me, perché c'era lei. La scuola mi sembrava meno volgare, meno piatta, perché c'erano le sue domande. C'erano le sue domande che poi mi risuonavano in testa, che ancora mi risuonano in testa, domande semplici, di una semplicità che disarmava. Eyes wide shut su suo invito. C'erano troppi enigmi in quel film, non li capivo, ma mi affascinava: alla fine non mi restarono che domande e sagome impalpabili di significato. Mi prestò allora Doppio sogno di Schnitzler, che però io non capii: non mi entusiasmava, colpa forse della traduzione. Altra cosa fu L'espoir di Malraux: oggi, a distanza di anni, ripenso spesso a quel libro, alle sue atmosfere surreali, alla penna cruda e impersonale di Malraux. Mi regalò la sua copia in edizione Folio originale; un bel mattoncino di scene implacabili, fotografiche, che parevano senza autore, sulla guerra di Spagna, che ancora ho tra gli scaffali.
Tutto quello che attirava la sua attenzione, e mi sembrava banale, ero destinata, alla lunga, a riscoprirlo. Inoculava continuamente, in me, il germe della domanda. Come se mi spalancasse davanti, in mezzo all'angusta mediocrità quotidiana, una finestra invisibile che dava su un oceano inesplorato di senso. Bisognava allenare gli occhi a vedere, Catherine era la mia allenatrice.
Non c'erano limiti alla conoscenza. La geopolitica era interessante almeno quanto la struttura chimica della materia. Le emozioni erano interessanti almeno quanto la ragione. La letteratura non era inferiore alla scienza. Bisognava trovare i legami, ma soprattutto bisognava cercarli.
Perché attaccarsi alle cose? Quando finiscono bisogna lasciarle andare. E bisogna osare, lo diceva sempre. Senza compiacimento. Le piaceva la parola osare. Catherine stava molto attenta alle parole.
Qualche anno dopo la fine del liceo, andai a trovarla. Avevo appena scoperto di essere incinta e sentii il bisogno di andare da lei: perché? In quell'occasione mi ricordò una cosa che avevo dimenticato. Mi raccontò di un sogno che le avevo riferito durante il liceo; che subito, sentendo le sue parole, mi tornò in mente. L'avevo sognata vestita da pompiere. La città era in macerie, c'era stata una frana che aveva ucciso tutti. Ma lei guidava i lavori con l'elmetto da vigile del fuoco, senza scomporsi. Mi invitò ad annotare i miei sogni e a pensarci su. Mi lasciò intendere, nel suo solito modo allusivo, ma che chissà perché mi ha sempre dato l'impressione di sottendere a un oceano di significati, che era significativo che per me lei, durante la scuola, fosse la mia vigilessa del fuoco. Era il mio punto di riferimento; allora non lo sapevo, ma lei sì. Quel sogno, che io avevo dimenticato ma che lei ancora ricordava, gliel'aveva detto.
Adrienne Rich racconta del rifiuto della madre e del bisogno di identificarsi con altre donne, molto spesso delle professoresse, molto spesso donne forti, indipendenti.
"Molte donne si sono trovate divise tra due madri: una, di solito la madre biologica, che rappresenta la cultura della famiglia, della vita incentrata sul maschio, delle aspirazioni convenzionali, e un'altra, magari un'artista o un'insegnante, che diviene il polo opposto. Spesso questa 'contro-madre' è un'insegnante di ginnastica che simboleggia forza e orgoglio del proprio corpo, un modo più libero di esistere; o una professoressa nubile, fervida di idee, che rappresenta la vita intellettuale attiva, autonoma. Questa divisione può permettere alla giovane donna di vedersi nei panni dell'una e dell'altra 'madre' per provare questi due ruoli diversi. Ma ciò può anche portare a una vita in cui la donna non risolve mai l'alternativa [...]. Ha cercato di uscire dagli schemi esistenti ma non si è spinta abbastanza in là, di solito perché nessuno le ha detto fino a che punto poteva arrivare."[A. Rich, Nato di donna, Garzanti 2000, p.352]
Penso che Catherine fosse la mia non-madre, il mio modello altro di donna di riferimento. Non lo sapevo, ma io mi identificavo in lei. Volevo somigliarle: volevo prendere da lei tutto quello che potevo.
Ancora oggi la penso spesso. Non sono più andata a trovarla. Mi hanno detto che parla spesso di me agli studenti. Una conoscente ha sentito parlare in bagno delle ragazze: la prof dice sempre Denise, Denise, Denise. Ma chi diavolo è 'sta Denise?! Con lei ho sempre avuto la sensazione che le parole fossero una ridondanza: l'essenziale si comunicava già, senza canali evidenti. Mi sembra che andando a trovarla tutto ciò si rovinerebbe. Dovremmo perderci in inutili come stai, cosa fai adesso, com'è andata in questi anni. Invece voglio lasciare intatta questa impalpabile, perfetta, comunicazione, che continuiamo ad avere anche se non ci vediamo da anni.
[Voglio parlarne ancora, della figura della madre e della contro-madre. Intanto segnalo questo e questo].