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Chianchiere

Da Antonio

Beccaio o più comunemente macellaio, per quanto “chianchiere” sia un nome ancora in uso.

Vendeva carne fresca appena macellate nella sua bottega con lame di vario tipo su di un bancone molto spazioso detto appunto “‘a chianca”.

Una volta ottenuti dei pezzi più piccoli ed eliminato il grasso eccessivo, questi venivano esposti appesi a dei ganci o su dei grandi piatti di acciaio per attrarre i clienti. Il chianchiere, inoltre, produceva le cosiddette vessiche ‘e ‘zogna (vesciche di sugna): appena macellato un maiale, il grasso veniva fatto liquefare in una pentola facendolo diventare strutto (sugna) e, poi, fatto raffreddare all’interno di vasi di terracotta, detti vesciche, ed esposte nel negozio. In questo procedimento, oltre alla sugna, si ottenevano dei residui detti ‘e cicule (i ciccioli) che venivano utilizzati per farcire tortani, casatielli, taralli, ecc.

Famose fin dal ‘500 le “chianche” napoletane, descritte nel 1535 da Benedetto di Falco: a Loreto, alla Vicaria, alla Loggia…Ispirarono molto toponimi, decaduti nel 1850 perché considerati “non decorosi” dal Consiglio edilizio. Resistono la Chianche ‘a Carità, a monte dell’omonima piazza.

(Nei dintorni di Piazza Carità c’è via Giuseppe Simonelli, anticamente chiamata Vico Chianche alla Carità per via delle “chianche”, cioè le panche, su cui i chianchieri, cioè i macellai, del mercato esponevano le loro carni e le macellavano per le truppe spagnole acquartierate a poca distanza)

Gli antichi macellai adoperavano il giorno di riposo, il venerdì di magro, per ripulire accuratamente la bottega. La prova in una quadriglia del 1770: «Va’, spécchiate a na chianca de qualesiasi chiazza!». Ancora più propagandistico il tono della “Quadriglia de li chianchieri”, 1715: «Vacche, vuoje e vetelle grosse…che de li chianche noste so’ li chiù belle frutte». Le Chianche ‘a Carità ispirarono, in verità per galanteria, Salvatore Di Giacomo: «’Ncopp ‘e chianche, ‘int’ a na chianca / aggio visto na chianchera / cu’ nu crespo ‘e seta janca / cu’ cert’uocchie ‘e seta nera».

Riguardo l’etimologia del nome la Napoli greca, nell’aggiornare la sua lingua, trasforma in “chi” il prefisso “pl”: chianca, ci conforta Renato de Falco, viene da “plax” superficie piana o tavola, quelle utilizzate – scrisse Bartolomeo Capasso – per «mettervi in mostra, distese, le carni che vi si vendono».

La massima dice di un uomo molto magro «ca ‘o meglio chianchiere nun ne putesse caccià manco na purpetta».



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