Trama:
“Perché vento sono stata”. Questa è la storia di una donna guidata dal suo senso di giustizia e dal suo dolore interiore, che visse e morì per il suo lavoro. La sceneggiatura è liberamente ispirata alla vita di Armida Miserere una delle prime donne a dirigere un carcere in Italia, una donna che ha iniziato a lavorare a metà degli anni ottanta, subito dopo l’entrata in vigore della legge Gozzini e ha saputo affermarsi in un ambiente ancora militarizzato e maschilista ottenendo stima e rispetto degli agenti come della popolazione carceraria.
Ciò che rende particolarmente interessante la sua vicenda umana sono le sue apparenti contraddizioni: si era fatta la reputazione di “dura” (era soprannominata “fimmina bestia” dai detenuti dell’Ucciardone) perché doveva confrontarsi con personalità molto forti, ma la sua vita è stata il continuo tentativo di mantenere vivo il suo lato più umano e femminile. Armida Miserere con il suo senso del dovere e il suo rigore morale è stata anche un personaggio insolito e per certi versi scomodo. Dopo aver sofferto la perdita dei suoi cari, Armida si è dedicata anima e corpo ad uno dei lavori più difficili al mondo e ha accettato senza discutere tutte gli incarichi che l’amministrazione le ha chiesto.
Forse lo Stato le ha chiesto troppo, forse l’impossibilità di avere giustizia, forse il desiderio di raggiungere l’unico uomo che ha amato veramente, l’hanno portato a prendere un decisione lucida e terribile a valle di un intreccio di ragioni pubbliche e private che le hanno reso la vita insopportabile.
Un giorno di primavera del 1990. Un giorno come gli altri, fatto di gesti quotidiani, percorsi noti, volti conosciuti. Poi una notizia inaspettata e tragica che ti scaraventa in uno spazio ignoto, ma da dove puoi rivedere il tracciato della tua vita e tornare al momento in cui tutto è cominciato. Armida Miserere inizia la sua carriera nell’amministrazione penitenziaria a metà degli anni ottanta. Umberto è un educatore impegnato nelle attività di riabilitazione dei carcerati. L’amore tra Umberto e Armida nasce nel piccolo teatro del carcere, dove Umberto dirige i primi esperimenti teatrali con i detenuti, e diventa presto una passione travolgente. Quando l’incontriamo sono una coppia stabile, Armida dirige il carcere di Lodi, mentre Umberto lavora al carcere di Opera. Vivono insieme in una casa a metà strada tra le due città, circondati dall’affetto di pochi amici. Provano ad avere un bambino, ma la gravidanza si interrompe. Rimarginate le ferite, continuano a guardare avanti con l’ottimismo degli idealisti.
La posizione di educatore porta Umberto ad essere molto vicino ai detenuti e questo lo espone a pressioni e tentativi di corruzione. Un giorno di primavera, inaspettatamente, poco prima della pasqua del 1990, viene ucciso mentre va al lavoro. Il mondo di Armida va a pezzi. I primi anni novanta sono segnati dagli spettacolari attacchi della mafia allo Stato italiano. Armida che è una servitrice dello Stato senza più nulla da perdere e si è fatta conoscere come un direttore tra i più fermi e corretti dell’amministrazione, viene mandata subito in prima linea a Pianosa, il supercarcere riaperto per sorvegliare i mafiosi più pericolosi. Applica la legge senza deroghe e riceve critiche e intimidazioni, ma non si fa impaurire. E’ l’unica donna in un’isola abitata da 1500 uomini e riesce a farsi rispettare instaurando un rapporto di cameratismo con i suoi uomini. Appena il lavoro le da tregua, cerca un po’ di solitudine per correre con i suoi cani nella natura incontaminata dell’isola.
Non ha dimenticato Umberto, ma la solitudine pesa e ha fame d’amore, tra gli agenti in servizio sull’isola, trova Maurizio un addetto alla sua sicurezza. Tenta di cominciare una nuova vita affettiva e si lascia andare ad una storia d’amore. Appena ricomincia a sognare si accorge che Maurizio non è Umberto, e diversamente da lui non lascerà la famiglia per lei. In assenza di una vita di coppia il suo mondo affettivo si coagula intorno agli amici di lavoro come Riccardo, Rita e altri magistrati, direttori di carcere, agenti di scorta, persone con cui condivide i ritmi stressanti della giustizia nelle carceri o della lotta contro la criminalità organizzata. Il lavoro è la sua vita, lo fa senza compromessi e a volte paga di persona. Quando collabora con Giancarlo Caselli e Alfonso Sabella alla cattura di Giovanni Brusca, deve lasciare Palermo per le ripetute minacce di morte.
Riccardo è un amico e un magistrato che le è molto vicino nella continua ricerca della verità sulla morte di Umberto. Finalmente, durante un maxi processo alla ‘ndrangheta in Lombardia uno degli uomini del clan confessa di essere stato l’assassino di Umberto e racconta la circostanza e il movente. Tutto corrisponde a quanto Armida aveva sempre sospettato: Umberto è stato ucciso per non essersi lasciato corrompere da un boss, anche se il fango che i pentiti gettano sulla figura di Umberto sono insopportabili. Sempre più delusa dall’umanità, Armida comincia ad essere stanca e demotivata nonostante la stima che riceve sul lavoro.
A Sulmona, nel supercarcere che dirige da qualche anno, nessuno si accorge del suo cambiamento, ma Armida ha un piano per liberarsi di tutti i suoi pesi.