Per quale ragione dedicare un post (una lezione) a una frase tanto banale?
Wes si è messo a piangere
In inglese:
Wes began to cry
Cosa c’è da imparare in queste poche parole? Molto, a dispetto delle apparenze.
Quando si scrive non c’è nulla che possa essere definito semplice. Sono quasi certo però che due siano le trappole mortali per chi si avventura nella narrazione.
La prima è quella che riguarda i bambini. Scrivere di bambini, farli parlare, è come ballare il tip tap su un campo minato. Dopo essersi bendati.
Il rischio di mostrarli come adulti in miniatura, è reale e spesso ci si cade dentro con tutte le scarpe. Eppure quello è il rischio minore.
La catastrofe si presenta quando sono raffigurati come se fossero dei piccoli idioti. Immagino accada perché non avendo alcuna cura o interesse per l’efficacia narrativa, si fa parlare il bambino nel modo in cui NOI ci rivolgiamo a lui.
È capitato a tutti di incrociare un bambino, rivolgergli la parola e parlare in quel certo modo banale, piatto, esattamente come se ci trovassimo alle prese con un’intelligenza inferiore. Per non tramortirla, si riempiono le frasi di spaventose scemenze. Diminutivi, storpiature e via discorrendo.
Se questo diverte (noi), e sembra funzionare, sulla pagina scritta (quindi all’interno di una narrazione che abbia qualche aspirazione a essere almeno decente) fallisce miseramente.
La seconda trappola si verifica quando si deve ritrarre un personaggio che vive dei sentimenti brucianti. Come il pianto.
In questo caso si cerca di uscirne ricorrendo all’abuso di parole. Forse perché siamo bombardati dalle immagini, e questo agisce in modo sottile anche sulla nostra scrittura. Ci si convince che certi sentimenti sono più reali se le parole sono messe in fila per bene e riempiono lo spazio bianco della carta come un reggimento.
Wes si è messo a piangere
A me questa frase regala uno strano sentimento. Una specie di schiaffo. Registra un fatto: si è messo a piangere e questo ha convinto Edna a offrirgli un’altra possibilità.
È uno degli esempi (dei tanti esempi) di quella scuola di pensiero che dice più o meno: “Mostra, non parlare”. Dostoevskji forse ci avrebbe calato nella testa di Wes e mostrato la tempesta di idee, sentimenti che la dilaniavano. Wes che tortura il cavo del telefono, si percuote la testa, e pensa:
Sapeva di essere indegno. Un inutile piccolo uomo, uno scarafaggio che meritava di essere pestato, spiaccicato, e lui lo avrebbe accettato, purché fosse Edna a pestarlo, sino a ridurlo a poltiglia. Egli bramava il dolore, sapeva che solo quello lo avrebbe salvato e saziato, e lo avrebbe ingollato fino a scoppiare, a farsi schizzare gli occhi fuori dalle orbite. Purché Edna gli sorridesse, gli regalasse uno sguardo ancora. E poi avrebbe accettato tutto. Tutto. Per l’eternità avrebbe accettato il supplizio, il dolore e l’umiliazione, purché venisse da lei! Da lei! E allora si mise a piangere.
Carver invece scrive:
Wes si è messo a piangere.
È un punto quasi insignificante del racconto “La casa di Chef” (e siamo sempre alla prima pagina). Si legge e si passa oltre, desiderosi di vedere come andrà a finire. Che ne sarà di Wes, Edna e chi è questo Chef. Ma leggere un racconto significa fermarsi e imparare ad affrontare i sentimenti dei personaggi.
La reazione di Wes convince Edna a dargli un’altra possibilità.
Le piccole cose, la bellezza delle piccole cose, dei dettagli insignificanti verso cui non si ha mai abbastanza attenzione. È quella che è necessario imparare nella lettura: l’attenzione. La cura.
Come leggere un racconto – Lezione Uno
Come leggere un racconto – Lezione Due