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Diventano fessure gli occhi dei ragazzi. Qui il tempo si è spaccato e loro lo capiscono dal dolore aggrappato ai muri di mattoni vecchi, che rimangono incrostati da una infamia fra le più terrificanti della storia. Scendono lacrime dagli occhi di questi ragazzi, davanti alle rovine dei krematorium che i nazisti fecero saltare illudendosi di nascondere quanto facevano. È ascoltando Sami Modiano che ha 82 anni e qui entrò quando ne aveva 12 .
La neve rende tutto più bianco e più surreale, come non fosse mai esistito, come se il campo di sterminio di Birkenau fosse solo un set cinematografico. Ma il freddo morde e sbriciola l’illusione. «Mi sembra di avere i brividi dentro più forti di quelli sulla pelle », sussurra Paola di Catanzaro. «Mi sembra di sentire le urla uscire ancora dalle baracche», dice Marco di Torino.
Si incrina la voce anche al ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo. È lui ad accompagnare qui 120 ragazzi arrivati dalle scuole superiori di 17 regioni italiane.
Insieme al presidente delle comunità ebraiche Renzo Gattegna e Marcello Pezzetti, che dirige il museo della Shoah. «È un percorso, questo – spiega il ministro – che sarà ancora più necessario fare quando il tempo ci priverà del privilegio di poter ascoltare i fatti dalla viva voce dei testimoni, guardando sul loro volto la tragedia ». I piedi e le mani gelano, «provate a immaginare cosa fosse per noi – dice Sami ai ragazzi – voi avete i vostri piumoni, avete i vostri dopo sci, noi soltanto un pigiama a righe e zoccoli di legno...». Loro lo ascoltano.
Muti. Scattano foto, e girano video coi cellulari, senza sorrisi: «Qui pesa anche l’anima», spiega Antonio Romano.
Non si fuma nel campo, né si masticano gomme. Qui tutto è rispetto. Nessun ragazzo contravviene. Nessuno alza la voce. Troppo freddo forse. O forse tanto di quel dolore che anche solo a 16 o 17 anni non si può sfuggirvi. I nazisti qui massacrarono 1 milione e 200 mila esseri umani: 1 milioni di ebrei e zingari, omosessuali, prigionieri di guerra, disabili. 200 mila bambini sotto i 10 anni. E le ragazze camminano senza fare rumore attraversando il kinderblock, la baracca nella quale venivano radunati i più piccoli prima di essere uccisi.
Muovono lungo le rotaie del judenramp, la via ferrata all’interno di Birkenau sulla quale arrivavano i carri bestiame carichi però di donne e bimbi e uomini e anziani. Siamo sotto una nevicata impietosa, «le immagini di quelle persone aleggiano ancora qui, forse ancora tra questi fiocchi», secondo Luisa di Locri. «Non sapemmo subito cosa accadeva – va avanti Sami – seppure lo capimmo quando qualcuno, pietosamente, ci spiegò che i nostri cari se ne andarono via nel fumo che usciva dalle canne sui crematori». E adesso proprio Luisa fatica nascondere gli occhi lucidi.
«Auschwitz è diventata il simbolo dello sterminio della popolazione ebrea e della barbarie nazista in genere», dice ancora il ministro dell’Istruzione. Nel museo, più tardi, i ragazzi sono attoniti. «Dio mio...», si sente dal filo di voce di Maria, romana, anche lei, di fronte alle tonnellate di capelli tagliati a chi era stato appena ucciso nelle camere a gas. Davanti a centinaia di barattoli vuoti di zyklon B che per intenderci è cianuro solido che a contatto con l’aria diventa gas e sterminava. E ancora vedendo i vestitini dei bimbi massacrati, sentendo i racconti di quel che faceva Mengele a loro e ai disabili. A questi ultimi, se non servivano allo scienziato pazzo, neppure si dava da mangiare: non servivano per lavorare né altro.
Scende la sera quando i ragazzi escono dal cancello di Auschwitz. Tutto intorno il bianco è beato dal rosso del tramonto. Un paesaggio spettrale e insieme dolce. Maria ci fa una domanda: «Come potremo mai dimenticare, adesso, tutto questo?».
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