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*** pensa di farmi un favore, probabilmente. Non lo è, mi pare di averglielo anche detto, ma non devo essere stato troppo convincente. Fu a gennaio, se rammento bene. Mi segnalò via e-mail che nel corso della consueta conversazione domenicale – in quell’occasione il servo di scena era Valter Vecellio – il «vecchiaccio» aveva citato Malvino come si trattasse dello pseudonimo sotto il quale mi celo perché ho vergogna delle mie opinioni o per chissà quale subdolo fine (come se sotto la testata di questo blog non sia scritto fin dal 2005 chi ne sia il titolare). «E tu lascialo dire», risposi. Certamente deludendo ***.
E stavolta? Che cazzo vuole, il «vecchiaccio», stavolta?
Anche stavolta non varrebbe la pena di rispondergli, però quel «poveretto» mi gratifica enormemente. Più dell’accostamento per antitesi a Benedetto Croce. Più del «napoletano» col quale Pannella ritiene di potermi sigillare in un luogo comune. Anche se so bene che a scendere in polemica con un arteriosclerotico non si offre uno spettacolo edificante, due paroline voglio spenderle.
Innanzitutto, vorrei far presente che per Pannella tutti gli ex radicali sono «poveretti» perché hanno smarrito la Luce, la Verità e la Via. In ciò vi è strettissima correlazione al fatto che per tutti gli ex radicali, invece, sono «poveretti» i radicali che in Pannella vedono la Luce, la Verità e la Via. Chiunque abbia un minimo di conoscenza della struttura psicopatologica di una setta (Galanter, Cialdini, Kernberg, ecc.) può farsi un’idea di chi sia più «poveretto», se chi vi rimane dentro o chi ne esce. A monte, ovviamente, resta la questione se Pannella sia la Luce, la Verità e la Via. La eludo perché solo a sfiorarla mi viene da ridere: il «vecchiaccio» può sembrare un gigante solo ai nani dei quali si circonda.
Millantatore professionale, si è cucito addosso nei decenni una automitobiografia fatta di rimandi, consumandone la rendita, peraltro ormai ridotta al lumicino. Peraltro basta studiare la storia della Prima Repubblica come si deve: Pannella è una zecca cocchiera, un esponente a pieno titolo della partitocrazia italiana che è riuscito a passare indenne attraverso tutte le sue crisi grazie alla marginalità e alla irrilevanza alle quali si è votato. Una scelta, non una condanna. Il motivo per cui ha sempre scientemente tramutato in rovina ogni successo del movimento radicale è proprio questo: sapeva di poter salvare il proprio culo solo sacrificando quello dei suoi compagni e, se è un merito, bisogna dire che c’è riuscito.
Mi pare di averlo già detto: la rovina dei liberali nella prima metà del Novecento si chiama Benedetto Croce, nella seconda metà si chiama Marco Pannella. Entrambi hanno pensato solo a costruirsi un mausoleo in vita: su quello di Croce crescono erbacce, su quello di Pannella scacazzeranno cornacchie. Come di Croce rimane solo qualche paginetta ingiallita alla voce Neo-idealismo, di Pannella resterà solo qualche frase che perderà ogni senso appena la sua morte seppellirà i suoi esegeti. In fondo, in fondo, Pannella non è altro che un Bandinelli dotato di Wille zur Macht, non è altro che un Capezzone che ha avuto culo.
In secondo luogo, è da rilevare che la mia uscita dalla setta è di oltre cinque anni fa e che Pannella ha necessità di rubricarla come eresia da stigmatizzare periodicamente. La rottura si è consumata proprio sulla natura religiosa della «cosa radicale» e le mie dimissioni dalla Direzione nazionale di Radicali italiani avevano lo scopo di porla in discussione. Discussione che allora si ritenne superflua, ma che non cessa di essere ripresa, al solo scopo di farla cadere, in queste occasionali ma frequenti citazioni di Pannella, che mi pare abbiano il solo scopo di convincersi e convincere i suoi della superfluità della questione, come a rimuoverla, perché in una setta è superfluo tutto ciò che non è cogente. Capita, infatti, che la questione sia sempre più spesso sollevata in seno alla setta da militanti che avvertono, più o meno lucidamente, che la natura religiosa della «cosa radicale» non è altro che una foglia di fico. Capriccioli, Mainardi, De Gioiellis, Spadaro, per citare solo i casi più recenti, pongono problemi vecchi di trent’anni, posti già da Mellini, Teodori, Negri, perfino da Tortora e Sciascia, che finirono per schifare Pannella, come capita a chiunque abbia un minimo di sale in zucca e un po’ di onestà intellettuale da difendere. Problemi posti invano, oggi come allora.
La «cosa radicale» non può essere altrimenti di com’è, cogli apostoli che precedono il messia facendo scivolare la mancia in mano al ragazzotto perché dica «Marco, non mollare!» e pareggi il conto con lo sputo e il dileggio. Poi la penetrante analisi antropologica del «vecchiaccio» chiarirà che il ragazzotto è ipostasi della Speranza e che chi sputa e insulta è una povera vittima della disinformazione del Regime. La «cosa radicale» non può essere altrimenti di com’è, con Pannella che parla e parla e parla, e prima o poi (sempre più spesso prima) cade in uno sproposito o addirittura in un banale refuso, e per ostinazione lo difende, anzi lo rilancia col raddoppio, giocandoci sopra tutto, e i sorci dietro, perché il piffero è magico e il pifferaio è un mito.
E dunque, quando Pannella cita Malvino per banalizzare e mistificare le accuse che io muovo a lui e ai quei quattro miserabili che gli stanno dietro come la bava segue la lumaca, caro ***, io non mi offendo e non mi incazzo: io godo. In questi suoi miserabili mezzucci trovo conferma delle mie ragioni. Nel fatto che tu da me ti aspetti ch’io m’offenda e m’incazzi vedo l’offesa e l’incazzatura di cui non sei capace per venir via, fuori, finalmente libero e pulito. Con un mucchietto di pietruzze colorate in mano. Tu, non me ne volere, in pugno stringi mosche morte.
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