Quando una persona si trova a “combattere” tra due o più identità, per scelta o per costrizione, si attivano dei meccanismi culturali e linguistici su cui spesso non si riflette o che passano in secondo piano. Un emigrante, passato o contemporaneo che sia, affronta necessariamente una “crisi di identità” poiché le sue tante e differenti esperienze personali lo mettono di fronte a delle scelte linguistiche che, il più delle volte, generano un nuovo codice, una lingua mista, arbitraria, che è difficile definire o regolare. Spesso può accadere che da questa sorta di “limbo” non si esca mai e non sempre la scelta spetta allo stesso emigrante.
Focalizzandosi sull’emigrazione italiana del secolo scorso, e in particolare di quella successiva alla Seconda Guerra Mondiale, si può delineare un profilo piuttosto chiaro dell’emigrante tipo: una persona di madrelingua dialettofono o con un italiano fortemente dialettizzato e popolare, per nulla o poco scolarizzato e con poca dimestichezza nella scrittura. Ciò nonostante – ed è caratteristica comune nel processo migratorio – si viene a creare quella che Sobrero (1973) definì socializzazione anticipatoria, ossia una sorta di “preparazione”, “apertura” ai cambiamenti culturali e linguistici: tale fenomeno assume un’importanza maggiore se cultura e lingua di arrivo sono vicine a quelle di partenza, come nel caso delle comunità italiane nell’America latina.
L’apprendimento della lingua del Paese di arrivo non è sempre un processo facile e, anzi, presenta molteplici difficoltà che spesso rallentano o addirittura bloccano le possibilità dell’emigrante. I fattori da prendere in considerazione possono essere personali o legati alla situazione linguistica. Tra i primi possiamo includere: una scarsa motivazione, l’età non più giovane al momento dell’emigrazione, il tipo di matrimonio contratto*, la mobilità che presuppongono i primi anni in un nuovo Paese, il tipo di lavoro svolto, scarse politiche di integrazione da parte delle autorità locali e nazionali, nonché l’analfabetizzazione di partenza. Nel secondo tipo di fattori rientrano, invece, variabili che difficilmente dipendono dal parlante bensì dal contesto d’uso della nuova lingua, e cioè: dal grado di interferenza linguistica con persone madrelingui; dagli usi specializzati di una certa lingua, per cui, ad esempio, il dialetto potrebbe essere utilizzato in contesti familiari o di vicinato, l’italiano con connazionali provenienti da altre regioni e la lingua ufficiale sul posto di lavoro o per comunicare con emigranti di altri Paesi o continenti; infine, lo stress emotivo, a cui può essere sottoposta la persona a contatto con i locali, e in special modo con datori o colleghi di lavoro.
L’apprendimento della nuova lingua, inoltre, è un processo che l’emigrante può controllare o subire. Quando lo controlla vuol dire che l’inserimento nella società di arrivo e il raggiungimento del benessere avvengono in modo armonico, e sia la lingua sia la cultura di partenza e di arrivo si mantengono e convivono “pacificamente”. Nel caso contrario, invece, e cioè quando (a fatica) si raggiunge una modesta posizione socio-economica, assieme al fatto di ritenere superiore la nuova società, l’apprendimento è subìto e a questo segue un progressivo rinnegamento del dialetto e dell’italiano. Per quanto riguarda il processo acquisizionale, nella prima generazione la nuova lingua “entra” in un primo momento attraverso numerosi prestiti a livello lessicale (collegati al lavoro, all’ordinamento scolastico, all’abitazione, all’alimentazione, ecc.), e in un momento successivo tramite la sostituzione di nomi, verbi, aggettivi, pronomi e avverbi.
Com’è normale, all’apprendimento della nuova lingua può far seguito una graduale o totale perdita del dialetto e dell’italiano, ma anche ciò varia, specialmente se prendiamo in esame persone appartenenti alla prima generazione di emigranti o alla seconda. Nella prima generazione – quella, cioè, di coloro i quali sono nati e cresciuti in Italia e che hanno vissuto l’esperienza migratoria in prima persona – di norma si assiste a una generale italianizzazione dell’emigrazione, vale a dire a un abbandono del dialetto a favore dell’italiano, essenzialmente per due ragioni: la diversa provenienza regionale, che può impedire la piena comprensibilità; il desiderio di mobilità sociale verso l’alto, che reprime le varietà regionali o locali considerate un impedimento all’adattamento. Il dialetto mantiene alcune caratteristiche arcaiche, tratti che ricordano quello parlato nel paese o nella città di appartenenza, poiché rimasto isolato dai cambiamenti avvenuti in Italia e, in un certo senso, fermo nel tempo (le Aree isolate teorizzate da Bartoli nel 1945); altra condizione che favorisce la conservazione, più o meno intatta, del dialetto è la compattezza e l’omogeneità della comunità dialettofona, specialmente se questa si trova in aree rurali e non in aree urbane. Inoltre, dietro certe forme linguistiche si nascondono mondi persi, usi e costumi tipici del passato e scomparsi a seguito del “progresso” economico e sociale, come ad esempio l’uso dei soprannomi di persona e dei soprannomi di famiglia, fenomeno tipico del sud-Italia. Le considerazioni che sono state fatte a proposito dei dialetti di origine possono valere tanto per l’una quanto per l’altra varietà regionale o locale, senza grandi differenze nelle rese linguistiche.
I modi in cui gli emigranti reagiscono al cambiamento culturale e linguistico possono essere vari. Si possono verificare una sorta di rinnegamento delle proprie origini e un distacco dalla realtà di provenienza attraverso il rifiuto di parlare in italiano o in dialetto. Non è un caso, poi, che quando questo avvenga ci sia anche la volontà di dimostrare attaccamento alla nuova terra, considerata un personale “Eldorado“. Più spesso, però, traspare l’incertezza, la “crisi” del non saper più esattamente chi si è e di dove si è. Generalizzare non sarebbe opportuno né rappresentativo della realtà, ma è vero che di casi come questi ce ne sono stati, ce ne sono e continueranno ad esserci.
La crisi identitaria passa attraverso piccoli e grandi gesti, ma soprattutto attraverso pensieri, parole e frasi che si possono esprimere ma che, nella maggior parte dei casi, restano inespressi per timore che non possano essere compresi.
*Il fatto di contrarre matrimonio all’interno del proprio gruppo sociale (endogamia) fa registrare un abbandono minore della lingua madre rispetto a coloro i quali scelgono un coniuge di altra nazionalità (esogamia).
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Cultura dialetto emigrazione italiana lingua migranti migrazioni slider 2015-04-15