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Cosa bisogna fare per pubblicare?

Da Marcofre

Secondo me, è una domanda sbagliata. Adesso spiego perché.

Nessuno si sognerebbe di chiedere che cosa occorre fare per diventare il primo violino nell’orchestra del Teatro alla Scala. Lo sappiamo tutti cosa ci vuole, anche se non distinguiamo una viola da un violino. E no, questa domanda non nasconde il bisogno di conoscere il processo di produzione, editing eccetera eccetera. Si presume che ci siano dei “trucchi”, delle scorciatoie e cose del genere.

So bene che spesso si arriva alla pubblicazione perché si conosce il tal dei tali, ma temo che questo sposti il discorso su un terreno che non mi interessa esplorare. Non conosco nessuno di importante o famoso, ma questo potrebbe essere un vantaggio. In questo modo devo puntare tutto sulle mie storie, e sperare nel talento.
Inutile a questo punto ribadire la debolezza della scrittura, che si offre a tutti, e tutti la vogliono. Se scrivere fosse pesante quanto scolpire marmo, non ci sarebbe una tale folla di autori.

È necessario porsi un’altra domanda:

 

Che cosa rappresenta per me la narrativa?

 

È evidente che in un caso del genere assistiamo a uno spostamento di prospettiva radicale. Dall’idea di libro-prodotto (“Come faccio a farlo arrivare sugli scaffali del supermercato?”), all’idea di libro-bene. Che forse sugli scaffali non arriverà mai, ma non perché non voglia arrivarci o non abbia affatto le qualità per occupare quei ripiani.
Probabilmente perché non seduce a sufficienza un pubblico addomesticato.

L’autore, iniziando una riflessione sul senso e sullo scopo della narrativa, dovrebbe comprendere (non è detto che accada) che ciò di cui si deve occupare è la qualità di quello che scrive. Che dovrebbe essere più o meno di questo genere:

 

Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato.

 

Questo è l’incipit de “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern; e non si dica che io non leggo mai autori italiani. Come si vede, qualcuno lo leggo eccome. Torniamo all’incipit però.
È un’immagine forte, semplice, ma all’istante proietta il lettore in un mondo molto fisico, concreto. No, nessuno di noi ha mai sentito l’odore del grasso su un fucile arroventato. Probabilmente non lo sapremo mai perché è difficile maneggiarne uno.

Però se riprendessi il titolo di questo post, adesso la risposta potrebbe anche essere: devi scrivere così, più o meno. Naturalmente non ci sono garanzie, non è che agendo in un determinato modo avrò la certezza: proprio no.
L’editore sbaglia. Oppure se ne infischia. Quel giorno ha litigato col commercialista, e nemmeno scorge il dattiloscritto.

Nemmeno il chirurgo è in grado di affermare che l’intervento sarà facile e veloce. Figuriamoci quindi l’editoria. Ma forse sto divagando, come mio solito.
Quello che deve essere chiaro, è che prima di tutto le forze e le risorse personali devono andare alla storia. C’è solo lei, e lei deve toccare il vertice: nonostante i nostri limiti.

Deve avere una tensione tale da far intendere che no, non è un capolavoro; ma nemmeno le prime opere di Dostoevskij avevano la potenza de “L’Idiota”. Ma tradivano una capacità di scrittura enorme. Occorre cioè dimostrare che chi scrive i capolavori li frequenta. E quando avvia il programma di videoscrittura, costui o costei conserva quella tensione, quello slancio. Non riempie le pagine di parole, ma le sceglie, le deposita sul foglio con cura.

Dopo… La salita continua. Ma d’altra parte nessuno è obbligato a percorrerla sino in fondo.
Esiste l’alternativa del self-publishing che è come… percorrere una salita.


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