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Da fisico, un inno alla Bellezza

Creato il 28 agosto 2013 da Uccronline

bellezza 
di Giorgio Masiero*
*fisico

 

Ho dedicato alcuni articoli ad argomentare l’esistenza di Dio dagli indizi che ci fornisce la scienza moderna: dall’impossibilità d’un infinito tempo passato, mostrata per via logico-matematica dal veto di Hilbert e per via cosmologica dal teorema di Borde, Guth e Vilenkin (BGV), alla non chiusura dell’Universo rivelata dal fine tuning antropico delle costanti fisiche.

In particolare, il teorema BGV, le cui assunzioni sono valide per il nostro Universo e per tutti i modelli inflazionari di multiverso (ammesso che una tal creatura esista), aggiorna una conseguenza del secondo Principio della termodinamica, cui già era pervenuto nel XIX secolo Ludwig Boltzmann: se l’Universo è eterno nel passato, com’è che non si trova già in uno stato di morte termica ed invece contiene ancora energia utile alle sue trasformazioni attuali?

Naturalmente non intendo con ciò asserire che la scienza dimostra l’esistenza di Dio: nella mia concezione epistemologica, la scienza sperimentale non è in grado di dimostrare con sicurezza nulla che riguardi anche il solo mondo naturale; immaginarsi il soprannaturale! Intendo solo che l’esistenza di Dio non è in contrasto con la scienza e che, semmai, è l’ateismo scientista in autocontraddizione: come si può infatti credere nel secondo Principio della termodinamica (la “legge più importante di tutta la scienza”, Albert Einstein) e allo stesso tempo che “l’Universo è lì da sempre e questo è tutto” (Bertrand Russell)?

Non solo il “vero” però, dimostra la ragionevolezza di credere in Dio: tutti i trascendentali medievali dell’essere possono costituire una strada per arrivare all’Assoluto. Così, si potrebbe argomentare l’esistenza di Dio con la legge morale inscritta nella coscienza di ogni uomo. C’è poi chi trova Dio attraverso il cammino congiunto del dolore e della bontà: in che altro modo potremmo imparare ad essere umani, se non per merito delle sofferenze del prossimo? Ci sono anche alcuni privilegiati, mistici e veggenti, che già in questo mondo arrivano a contemplare il divino. A me, più modestamente, può capitare di ammirarNe l’ombra nella bellezza, specificatamente nell’arte, quando forti ed inattese emozioni si susseguono repentine e l’anima si abbandona prigioniera all’estasi donata dalla sindrome di Stendhal.

Quel giorno avevo passato il tempo a visitare un’incredibile mostra dedicata a Pietro Bembo, un cosmopolita rinascimentale della mia terra che ebbe la sorte di vivere d’arte e di poesia. Per tutta la vita, la sua passione fu la bellezza assoluta e senza tempo, cercata meticolosamente nelle vestigia dell’antichità classica per farla rinascere alla sua epoca nelle città, nelle case e negli ambienti sociali che abitò. Egli inventò il collezionismo moderno, l’archeologia e la restaurazione conservativa e al suo canone estetico s’ispirò per la forgiatura della nuova lingua italiana, così come nei sonetti amorosi o nella musica. Quella mostra mi avvinse perché non era la solita successione di sale, con opere d’arte e preziosi cimeli appesi alle pareti o custoditi in teche, ma riproduceva gli spazi reali della vita quotidiana d’un mecenate: qui, ogni ambiente – dalla sala da pranzo alla camera da letto allo studio al teatro alla biblioteca, ecc. – era adornato dei capolavori e dei manufatti della sua ricchissima collezione. Quel giorno, lasciati i sensi pesanti dell’uomo moderno, vissi sospeso nel Rinascimento, tra Bellini e Giorgione, Tiziano e Raffaello. Stetti alla mensa egizia di bronzo dorato intarsiata di geroglifici e cartigli con Aldo Manuzio, sussurrai poesie d’amore a Lucrezia Borgia ed ascoltai la viola da gamba in compagnia di Elisabetta Gonzaga, e poi studiai antichi codici miniati sotto lo sguardo attento dell’imperatore Adriano e quello annoiato di Antinoo… Venne sera, e ancora intontito uscii da quell’empireo per andare a teatro, ad uno spettacolo che mia moglie aveva da tempo prenotato.

Qui caddi in un’altra, magica dimensione dell’arte. Se nessuna danza popolare raggiunge lo stesso livello di comunicazione tra i corpi (emozione, energia, respirazione, abbraccio, palpitazione), con Miguel Angel Zotto e Daiana Guspero il tango raggiunge la perfezione. Giustamente l’Onu l’ha dichiarato patrimonio dell’umanità: non c’è nulla come il tango argentino che metta insieme bellezza del corpo, passione dell’anima, danza, musica e anche arti figurative. Per due ore fui rapito dal prodigio di grazia degli enti vibranti, roteanti, palpitanti, risuonanti e luccicanti sulla scena. Come aveva ragione Gottfried von Leibniz – riflettevo, immerso nella contemplazione – a ritenere che la musica ci svela la struttura matematica contenuta nella bellezza e nella verità dell’essere! Fu in una lettera del 1712 a Christian Goldbach (quello della congettura matematica ancora irrisolta) che Leibniz diede la sua celebre definizione della musica come aritmetica inconscia: “musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi”, la musica è un esercizio occulto di aritmetica, nel quale l’anima calcola senza rendersene conto.

Il legame tra musica e matematica non era visto da Leibniz in senso mistico, come nella visione ingenua di Pitagora, ma razionalmente secondo la concezione cristiana, donde non a caso nacque la notazione diasistematica su righe parallele da cui sarebbe esplosa la polifonia della musica occidentale moderna. La struttura numerica sottostante la musica, che nella mente del compositore è analizzata e costruita, nella mente dell’ascoltatore è intuita come molteplicità organizzata. Il bello musicale coincide con l’osservabilità del molteplice, un atto di sintesi che coglie la quintuplicità aritmetica dei suoni – nelle frequenze, nelle ampiezze, nelle durate, nei timbri (che consistono nella successione delle ampiezze delle armoniche) e nei ritmi –. Il piacere musicale sta nel sentire l’armonia, che è il principio unificatore della varietà. Un’armonia che è tanto maggiore perciò, quanto maggiore è la varietà delle componenti che essa organizza, dissonanze comprese destinate a risolversi nella consonanza finale.

Allo stesso modo, ogni contrasto interno all’armonia del mondo (prodotto dal male, o da ciò che ci appare tale) venne ricondotto dalla teodicea di Leibniz ad un’apparenza, originatasi da una percezione della realtà non abbastanza comprensiva di quel principio armonico che governa il mondo. La varietà è condizione fondamentale dell’armonia, tanto sul piano estetico (del bello) quanto su quello metafisico (dell’essere), e gli elementi apparentemente dissonanti contribuiscono al suo arricchimento, disvelato dalla matematica soggiacente la Natura (il vero). L’arte del compositore che combina le note è una mimesi dell’attività combinatoria che il Creatore esercita su una varietà a priori infinita di essenze, portandone alcune dal non essere all’essere nell’accordo reciproco. L’arte musicale umana e l’arte combinatoria divina esprimono ancora una volta la somiglianza del logos umano creato al Logos divino creatore.

I trascendentali appartengono all’essere in quanto essere, e quindi appartengono sia alle creature che al Creatore: sono tracce di Dio nelle cose, così che in ogni trascendentale contemplato in un ente – fosse un’ape, un raggio di luce, o un suono – noi possiamo vedere un’immagine di Dio. Una copia limitata e offuscata rispetto all’Originale, ma comunque pregna di senso. Ma come sarà ammirare la Bellezza che ha creato tutte le bellezze? “Tardi Ti ho amato, Bellezza così antica e tanto nuova, tardi Ti ho amato. Sì, perché Tu eri dentro di me ed io fuori: lì Ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle sembianze delle Tue creature. Eri con me, ma io non ero con Te. Mi tenevano lontano da Te le Tue creature, inesistenti se non esistessero in Te. Mi chiamasti, e il Tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il Tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la Tua fragranza, respirai ed ora anelo verso di Te; Ti gustai ed ora ho fame e sete di Te; mi toccasti, e arsi dal desiderio della Tua pace” (Sant’Agostino, Le Confessioni).


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