Magazine Diario personale
UN BEL giorno hanno deciso di eliminare tutti i pazzi e i mendicanti dal centro della città. Si avvicinava qualcosa d’importante. Un anniversario storico, la stagione dei turisti. Non so. Qualcosa d’importante. Non so mai cosa sia importante. Una volta anch’io classificavo tutto così. Certe cose erano importanti e altre no. Certe cose andavano bene e altre no. Ma non più. Ora mi era tutto indifferente. Beh, insomma, le cose stavano così. Acchiappavo pazzi e mendicanti. Mi avevano selezionato insieme a pochi altri. Quando avevo smesso di sturare le tubature del gas ero rimasto a spasso per un po’. Beh, non proprio a spasso, perché quella stronza dello scorfano non mi aveva mai mantenuto. Quando aveva capito che non avevo il becco di un quattrino mi aveva sbattuto fuori e ciao. Ahora avevo iniziato a raccogliere la spazzatura. Cominciavo a mezzanotte e staccavo alle otto del mattino. Ero pagato per il rischio, per il lavoro notturno, per le condizioni anormali del lavoro. Questo significa che potevi avere un incidente e rimanerci secco. Beh, in tutto prendevo quasi trecento pesos. Come un ingegnere. E in più una ricca colazione alla fine del turno, Però ero costretto ad ammazzarmi di seghe, perché nessuna donna voleva stare con me. Avevano schifo. Dicevano che puzzavo di marcio e di merda. lo non credo. Mi lavavo tutti i giorni. Probabilmente era un tanfo psicologico. Appena scoprivano quello che facevo cominciavano a menarmela che puzzavo di merda e di rifiuti putrefatti. E che avevo le unghie e le orecchie piene di sporcizia. E mi mollavano. E ahora giù altre seghe. Non che o sia più focoso degli altri. Sono normale. Ma tre o quattro giorni senza scopare mi bastano e avanzano per andare fuori di testa e ammazzarmi di seghe. Insomma, i capi avevano seclto quattro di noi. Ci avevano dato un’uniforme grigia, scarpe da tennis e un berretto grigio con lo stemma del Ministero della sanità, quando normalmente noi spazzini, che lavoravamo in mezzo alla sporcizia, andavamo a torso nudo, con i calzoni corti e un paio di scarpe rotte. Tutti sudati, in mezzo all’unto e al marciume, non si poteva certo stare vestiti. Il lavoro era semplice. Dovevamo girare con calma per le strade, attirate i rnatti e i barboni con qualche fandonia e farli montare su un camion pacificamente e senza creare scompiglio. Era un camion grande, bianco, chiuso ermeticamente e senza finestre, con la pubblicità di un negozio di elettronica. Ci avevano detto che sarebbe stato solo per due o tre settimane, e che non dovevamo farne parola con nessuno. «Non è che sia un segreto, ma bisogna muoversi con discrezione. Alla fine riceverete un sacchetto con sapone, olio, detersivo e altra roba. Avete solo da guadagnarci» ci ha detto uno dei responsabili. Almeno era un lavoro più pulito e ci avremmo ricavato qualcosa. Era un po’ misterioso, perché non ci lasciavano salire sul camion e non ci dicevano dove avrebbero portato i barboni. Dentro li aspettavano dei tizi col camice bianco, stile infermieri, e il silenzio. I matti non gridavano quando entravano. Probabilmente facevano loro un’iniezione, Non so. Meglio non sapere troppo. «A chi parla troppo gli tagliano la lingua» mi diceva mio padre. Per questo io... mi cucio la bocca. E poi se ti lasci mettere troppo i piedi in testa finisci come loro: pazzo, o a chiedere la carità. Cazzi loro se si erano lasciati ridurre così. Adesso hop, sul camion! E chissà se sarebbero mai tornati in strada. Non li ho contati, ma credo che in tutto ne avessimo già preso qualche centinaio. Magari c’era un altro camion che faceva la stessa cosa. In tre settimane non è successo niente di strano. L’ultima notte, però, è stato un casino. All’alba siamo andati a prelevare un tizio vecchio e lercio. Stava steso in terra a dormire davanti al portone di un ospedale. Quando, in due, l’abbiamo spostato per caricarlo e metterlo sul camion, ci siamo accorti che stava coricato su una pozza di sangue. Vomitava sangue nero. E teneva stretto un sacco pieno di manghi. Il sacco era piuttosto pesante, ma lui lo trascinava e ci vomitava sopra sangue nero. Era sangue puzzolente. Il vecchio aveva un’emorragia interna. L’abbiamo ributtato per terra. «Cosa facciamo con questa merda, socio?» ho domandato al mio collega. «Se lo lasciamo qui, poi ci tocca tornare indietro a prenderlo» mi ha risposto Cheo. «Sì, ma questo finisce che insozza tutto il camion e poi schiatta. Meglio trascinarlo fino al pronto soccorso». L’abbiamo sollevato di nuovo. Quel vecchio stronzo non ha mollato nemmeno per un istante ji sacco con i manghi. Al pronto soccorso non c’era nessuno. Solo una vecchia negra con una scopa e un secchio. Mezzo addormentata. Quando siamo arrivati con il tipo e abbiamo sporcato tutto di sangue quella si è arrabbiata. «Cos’è ’sta roba? No, no, no! Qui no». «Come qui no, signora? E allora dove?». «No, no. Lasciatelo fuori». «Lei lavora qui? Vada a chiamare un medico. Andiamo, Cheo». Stavamo per andarcene, ma da un angolo buio è sbucato fuori un poliziotto. «Un momento, cosa credete di fare? Dove andate?». «Guardi, agente, questo tizio era davanti al portone dell’ospedale che vomitava sangue e noi l’abbiamo preso e portato qui». «A quest’ora? Sono le quattro e mezzo del mattino. Favorite i documenti, tutti e due. Che cosa fate?». «Niente». «Non lavorate? ». «Si... ehmm... raccogliamo la spazzatura». «Con quell’uniforme? Siete spazzini svizzeri, americani, o cosa?». Non sapevo cosa rispondere. E Cheo stava piantato là come un imbecille e non apriva bocca. Il vecchio ha cominciato a vomitare ancora più forte sul sacco. La vecchia lustrapavimenti è montata su tutte le furie perché doveva pulire. Il vecchio ha buttato fuori tutta la merda che aveva ancora in corpo, ha cominciato a tremare ed è morto, emanando un fetore ben peggiore di quello che sentivo nel camion della spazzatura. È venuto il voltastomaco anche a me, il che è tutto dire. Come se tutto questo casino non bastasse, da un taxi sono scesi due negri enormi. Uno dei due era un mulatto più chiaro, con una grossa catena doro al collo. Era troppo bello pet essere un uomo. Sembrava un attore del cinema. Piangeva per il dolore. Aveva i pantaloni abbassati, un palo ficcato nel culo e sanguinava. Non poteva camminare. L’altro lo sorreggeva. Aveva l’aria spaventata, ma lo sorreggeva. II poliziotto è andato a dare un’occhiata. «Questo palo me l’ha messo dentro lui, mio marito! Ah, non riesco a toglierlo, svengo, agente, ahh... Non lasci andar via mio marito, non voglio che mi lasci sola...». Ed è caduto a terra svenuto. Il negro grande e grosso, sempre più spaventato, gli ha gridato: «Ehi, finocchio, marito a chi? lo sono un uomo, agente. Non conosco questo tizio». L’agente ha perso tempo per sfilarsi le manette dalla cintura. Il negrone se l’è svignata. Il poliziotto l’ha inseguito. Il tassista è sceso dall’auto e ha cominciato a frugare nelle tasche del finocchio svenuto per recuperare i soldi della corsa. Approfittando della confusione, la vecchia ha trascinato in un angolo il sacco con i manghi coperti di sangue e schifezza vomitata. Ha scelto i frutti più puliti e se li è mangiati. Io e Cheo cene siamo andati. Avevamo bisogno di farci un goccio di acquavite, ma a quell’ora i bar erano tutti chiusi. Cheo camminava accanto a me, a passo spedito, e continuava a ripetere: «Raccogliere spazzatura è più semplice, socio. Questo lavoro è troppo incasinato peri miei gusti». Detto fatto. Il giorno dopo siamo tornati alla spazzatura. Comunque credo che sia stata tutta fatica inutile. In giro c’erano ancora più matti e mendicanti di prima. Sembrava che si riproducessero come conigli. Li vedevi ovunque ti voltavi: lerci, ubriachi, che parlavano da soli. Cheo mi ripeteva sempre la stessa cosa: «Vedrai che uno di questi giorni ci tolgono dalla spazzatura e ci rimettono ad acchiappare matti e mendicanti. Tu ci vai? Io no. È troppo complicato per me, socio».©Pedro Juan Gutiérrez
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