Incontro sulla continuità del moderno. Recupero e restauro per progettare nel già progettato.
Uno scorcio panoramico sulla piscina e sulla costa dal balcone di Castel Paradiso.
Che non esistano leggi fisse in architettura è ormai un dato di fatto, acquisito e consolidato. Ma com’è possibile intraprendere uno studio storico e culturale degli edifici basato sulla progettazione sperimentale? Il lungo elenco che accoglie gli esempi di recupero architettonico di edifici moderni rappresenta un’ampia e dettagliata pietra miliare in questo campo empirico.
Ne è una chiara dimostrazione il restauro di Castel Paradiso, incantevole complesso residenziale integrato nella suggestiva cornice del promontorio di Gabicce, tra le fasce costiere di Marche ed Emilia-Romagna. La storia di questo edificio trae origine nel corso del Novecento, quando Giovanni Mazzocchi, fondatore di riviste come il Mondo l’Europeo e Quattroruote, decise di costruirsi una casa in questo angolo di mondo che disegna una romantica cesura tra il litorale piatto del nord-est italiano e le coste frastagliate del medio adriatico.
L’idea dell’imprenditore marchigiano era quella di edificare una dimora dei sogni, dapprima denominata “Casa Romita”, completamente immersa nel verde e posta nella tranquillità di un panorama che offre imperdibili tramonti. A questo scopo, nel 1942 si affidò ad esperti del calibro dell’architetto Melchiorre Bega e del paesaggista Pietro Porcinai. Tuttavia, a dispetto dei buoni propositi, il tempo non giovò all’edificio; durante la seconda guerra mondiale i soldati tedeschi costruirono un bunker sotterraneo al di sotto della postazione della casa, contribuendo al processo di erosione e rendendo più friabile la roccia del rilievo costiero.
Inoltre, a partire dagli anni sessanta, la riviera romagnola cominciò a conoscere una fase espansiva di turismo e questo piacque sempre meno a Giovanni Mazzocchi, che nel 1967 incaricò lo studio BBPR alla riqualificazione della struttura. Il team di professionisti, che rispondevano ai nomi di Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Nathan Rogers, registrava chiare influenze dal movimento moderno, con riferimenti a Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe e Marcel Breuer.Il target estetico, uniformato sul criterio della funzionalità, ispirò dunque gli architetti dello studio BBPR alla progettazione di un complesso di trenta alloggi, raccolti in due lunghi edifici articolati quasi a “paese”, intorno ad una “piazza” verde; ad un livello più basso l’opera include un ristorante, due piscine con servizi, l’autorimessa sotterranea, l’alloggio del custode e la sede dell’amministrazione. Sul mare è presente una spiaggia con cabine e un molto per le imbarcazioni. Nel fascicolo del progetto, si legge che il collegamento diretto tra le residenze e il mare avviene con un ascensore, che penetra verticalmente nella montagna (partendo dal livello delle piscine) e quindi con una galleria che porta alla spiaggia.
Sempre nella descrizione del prospetto, viene evidenziato come il problema maggiore fosse rappresentato dall’inserimento ambientale del nuovo nucleo, collocato all’estremità di un disordinato lembo di tessuto urbano. I progettisti di BBPR avevano allora cercato di rendere meno visibili le costruzioni agli occhi di coloro che arrivavano dalla strada a monte, il tutto per lasciare intatta la vista del mare. Il complesso appare oggi composto non da due unici grandi edifici, ma da agglomerati di piccole case, con scale esterne e terrazze come coperture.
Proprio sul tema del “progetto invisibile” parte l’analisi storica sulla concezione di restauro filologico, che si sintetizza nella riconoscibilità dell’intervento, cioè nel rispetto per le aggiunte aventi valore artistico che nel corso del tempo sono state apportate al manufatto. A darne un’importante traccia è Sergio Poretti, professore all’Università “Tor Vergata” di Roma. Secondo Poretti, in Italia il problema del restauro si è posto tardi, precisamente verso la fine degli anni Ottanta. In tal senso, la svolta della storiografia ha avuto un ruolo determinante. Difatti, l’impostazione dei restauratori è diversa da quella degli storici: principalmente, l’indagine storica individua gli elementi nevralgici da cui dipende il linguaggio architettonico.L’esempio portato in esame è quello del Palazzo delle Poste di Adalberto Libera e Mario De Renzi, che sorge nel cuore di Roma, a ridosso dell’Aventino e delle Mura Aureliane e adiacente al complesso monumentale della Porta S. Paolo e della Piramide di Caio Cestio. L’edificio non è solo un esempio di razionalismo, ma prende chiaramente spunto dallo stile modernista e da quello novecentista.
Il palazzo si articola in un corpo alto a C con testate traforate da finestroni a losanghe, dove sono collocate le scale che conducono agli uffici e un portico di accesso, delimitante la grande sala centrale a doppia altezza concepita come corte interna e illuminata da un lucernaio ellittico; l’organismo riassumeva la modernità attraverso l’organizzazione funzionale e la continuità delle istituzioni nell’immagine più rappresentativa, in una sintesi “esattissima di passato e divenire”.
Il restauro dell’edificio, avvenuto verso la metà degli anni Novanta, prevedeva una manutenzione straordinaria delle componenti edilizie, l’adeguamento e il riassetto dell’impiantistica. Era stato previsto il ripristino degli elementi architettonici di particolare pregio: il portico, gli scaloni d’accesso e il salone pubblico. Ciò non sarebbe stato possibile se i restauratori, tra i quali il progettista è lo stesso Sergio Poretti, non si si fossero lasciati alle spalle i pregiudizi ideologici sull’architettura fascista.
Questo significa che, prima di impegnarsi in qualsiasi progetto di restauro, occorre indagare sull’analisi anatomica e storica dell’edificio, al fine di conoscere meticolosamente l’oggetto, di cui vanno recuperate tutte le caratteristiche architettoniche. Il progetto si deve basare sulla conoscenza storica dell’edificio.
Nel settore del restauro, tra la mentalità del progettista e del restauratore è difficile individuare un punto di congiunzione. Di converso, nel momento in cui il progettista decide di collaborare con il restauratore, si comprende che è la stessa opera ad indicare come autoconservarsi, partendo proprio da un processo di storicizzazione materiale dell’edificio.
L’ultimo modello di restauro del moderno affrontato durante il meeting ha focalizzato l’attenzione sui cambi di destinazione d’uso. L’indagine è stata spostata sulla storia delle colonie estive. L’essenza di queste costruzioni, sintetizzata nella formula “aria – luce – movimento“, era improntata sulla netta divisione tra la parte privata e la parte pubblica degli edifici: si tratta, nella maggior parte dei casi, di strutture autarchiche adibite ad ospizi per bambini affetti da difficoltà respiratorie. Da questa impostazione, numerosi progetti si sono concentrati sugli aspetti tecnici e metodologici, convertendo la destinazione delle colonie sul format di villaggi turistici e villaggi di vacanza.
L’emblema di questa evoluzione architettonica è riscontrabile nell’ex colonia IX maggio di Bardonecchia, che venne progettata da Gino Levi Montalcini per ospitare la gioventù inserita nelle organizzazioni giovanili fasciste. Inaugurata personalmente da Benito Mussolini il 9 maggio (di qui il nome) 1939, la colonia idealizza il prototipo di architettura funzionale. Con i fondi per le Olimpiadi invernali del 2006, la struttura, ribattezzata Colonia Médail, fu ristrutturata e destinata a polo logistico dell’organizzazione olimpica e poi a struttura alberghiera e turistica. Oggi la Colonia IX Maggio è in gestione ad una società turistico-alberghiera che ne ha fatto un resort per i turisti.
Anche in questo caso, come asserirebbe l’architetto olandese Rem Koolhaas, emerge “la problematica della continuità come progetto della fondazione dell’architettura.”
Giacomo Fidelibus