di Simone Vettore
La tesi, non nuova, è stata di recente rilanciata dal Financial Times in un articolo dal titolo eloquente, The new country of Facebook: a detta dell’autrice, i social network, anche se a questo punto la definizione risulta riduttiva, dall’alto dei loro milioni di utenti e della profonda conoscenza che essi hanno di questi ultimi (ben superiore rispetto a quella che gli Stati hanno dei propri cittadini), insidiano sempre più il primato dello Stato-nazione e, in un futuro che potrebbe essere più prossimo di quanto si possa credere, potrebbero finire per erogare una serie di servizi che, tradizionalmente, sono sempre stati suo appannaggio.Precisato che il verificarsi di tale scenario appare effettivamente verosimile così come condivisibili paiono essere i timori sollevati in ordine ai diritti, o meglio ai “non diritti”, dei cittadini virtuali di Facebook (in particolare viene ricordato come la creatura fondata da Mark Zuckerberg rimanga pur sempre un’azienda, che non vi sia una “costituzione” e tanto meno che vi si tengano elezioni), va però rilevato come l’articolo non vada sufficientemente al cuore della questione, ovvero non spieghi le cause profonde di questo passaggio di “sovranità” ma si limiti piuttosto a descriverne le (probabili) conseguenze.
Altro aspetto che nell’articolo non viene approfondito è se il fenomeno in questione rappresenti anche “qualitativamente” qualcosa di nuovo o se, al contrario, non sia altro che la nuova veste di un qualcosa comunque già in atto; va infatti a proposito ricordato che di fine dello Stato-nazione si dibatte oramai da anni, sicuramente da ben prima della nascita di Internet e delle sempre più numerose compagnie che su di esso basano il proprio business. Negli anni Cinquanta e Sessanta, ad esempio, si dava per acquisito il nesso tra processo di decolonizzazione e declino dello Stato da una parte e, dall’altra, tra le varie forme con le quali si manifestava il neocolonialismo e che, stante la natura essenzialmente economica dei vincoli posti agli Stati “neocolonizzati”, vedeva il ruolo di primo piano delle multinazionali di quella che, fino a qualche anno fa, si definiva old economy (giusto per marcare le differenze rispetto alla dirompente new economy basata per l’appunto su Internet ed in generale sulle “nuove tecnologie”). Similmente si argomentava nel corso degli anni Novanta dello scorso secolo, allorquando, con la fine della Guerra Fredda e delle ideologie e, per converso, il (supposto) trionfo del modello liberale e liberista, si riteneva che lo Stato avesse assolto al suo compito storico e che ora, sulla scia della globalizzazione, altri fossero gli attori destinati a tessere le relazioni internazionali.
Purtroppo, come sempre, la realtà è ben più complessa delle varie costruzioni teoriche e, se si può concordare con la tesi di fondo che lo Stato-nazione, così come l’abbiamo ereditato dalla Rivoluzione Francese, è in declino, va altresì sottolineato che tale processo va inserito in dinamiche di lungo periodo, tali da rendere la transizione lunga e tutt’altro che lineare.
Pur confermando la validità di quanto appena sostenuto, vale a dire la correttezza di un approccio basato sulla longue durée per comprendere i cambiamenti in atto, occorre nel contempo ammettere che la rivoluzione tecnologica basata sul “digitale” ha comportato un netto scarto rispetto a quanto accadeva fino a pochi lustri fa: l’abusata affermazione che “tutto avviene in rete” (dalle relazioni sociali alle transazioni economiche, dall’attività politica al tempo libero, etc.) corrisponde complessivamente al vero.
Scarica gratuitamente il Research Paper N°31/febbraio 2015: ”Data center, dominio del cyberspazio e declino dello Stato-nazione“
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