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Di brodini, pappine e tentativi stravaganti di svezzamento: i racconti di una mamma dal primo al sesto figlio

Da Piccolocuoco @piccolocuoco
di Laura Pantaleo Lucchetti
Di brodini, pappine e tentativi stravaganti di svezzamento: i racconti di una mamma dal primo al sesto figlio Vi avevo promesso qualche giorno di tregua: rieccomi qui. Se vi siete ripresi dalle mie… dichiarazioni programmatiche, questo post fa per voi. Perché è un outing pazzesco…
Ebbene sì. Vi racconterò di come ho svezzato ottimamente i miei due ultimi figli, ossia il quinto e il sesto della mia tribù personale di mamma diventata bionica dopo svariate cartucce, ma anche di come nei primi quattro casi io sia stata a dir poco una frana. E mi ci vorranno come minimo un paio di puntate, quindi mettetevi comodi…
Non è che si nasce imparati, come si suol dire. Dovete sapere, infatti, che all’inizio della carriera di mamma ero piuttosto imbranata. Stravolta e mortificata dalla fatica immensa del primo figlio – d’altra parte termini di paragone al primo colpo non ne avevo! - , cercavo ancore di salvataggio dappertutto: nei consigli di mamma, suocera, zia nonché della pediatra: più che un poker al femminile, mi ero data lo scacco matto da sola. Mi appellavo ai loro consigli richiesti oppure consentivo interferenze gratuite? A volte è proprio sottile il discrimine. Comunque sia, per farla breve, dovetti ridimensionare i propositi trionfalistici fatti durante la gravidanza e tagliare un po’ a destra e manca, avendo più timore degli insuccessi che di sperimentare in ogni campo durante la mia nuova, stupenda avventura di mamma.
Su alcune cose per la verità ebbi successo. Mi ero imposta di allattare a tutti i costi, nonostante mia madre e mia suocera, le mie figure femminili di riferimento, non l’avessero mai fatto e non lo considerassero di importanza capitale, né tantomeno la pediatra; ci riuscii perfettamente e lo rifeci con tutti i figli a seguire.  Decisi così di concentrarmi  e appagarmi in quest’aspetto, sorvolando  su altro che, col senno di poi, avrei anche potuto gestire in maniera più meditata. Fra queste, ahimè, proprio lo svezzamento.
Col primogenito lo iniziai per sfinimento – urlava come un pazzo e secondo i miei parametri di allora per fame - a quattro mesi e mezzo, a suon di omogeneizzati comperati, di polvere vanigliata di riso e di broda scipita di patata zucchina e carota: una roba che più omologata non si può e mi immagino ormai sia di gran moda anche in Alaska. Mi presi la girata della pediatra secondo cui avrei dovuto iniziare coi liofilizzati. Eppure era giovane. Rinunciai a capire. Per fortuna il pupo, al quale correggevo il sapore dolciastro di base con un bel po’ di grana grattugiato, mangiava a quattro palmenti e non ebbi intoppi particolari sul percorso, a parte qualche problema di irregolarità intestinale i primi tempi. Caso strano, ma anche no, fu l’unico ad ingrassare prepotentemente durante il primo anno di età, ed è l’unico che oggi – pur rientrato perfettamente nei parametri di peso – se potesse vivrebbe di carne, rifiutando miliardi di altri cibi che non sto ad elencare (uno per tutti: odia, ahimè, la verdura cotta).
A due anni di distanza ebbi la seconda figlia e andai avanti per la stessa strada, cambiando pediatra. La mia bambina, a differenza del primo, era magra come un picco: a quattro mesi esatti iniziai con brodina e crema di riso per compensare la mia scarsa quantità di latte (di darle quello artificiale non ne volevo proprio sapere): ma lei non ne voleva sapere assolutamente di mangiare. Meno gerarca della prima, ma comunque vecchio stampo e per giunta uomo, il nuovo medico mi lasciò fare con gli intrugli confezionati e le ricerche di alimenti stravaganti: pur di cacciarle giù qualcosa, ero arrivata a farle ingurgitare una “pozione”, così l’aveva bollata il fratellino maggiore, con la tettarella del biberon tagliata in maniera strategica. Era una bambina sprizzante energia ed intelligenza da tutti i pori, ma così magra che davvero, confrontata col fratello maggiore sembrava malata. Le feci fare tutte le analisi possibili ed immaginabili: era sana come un pesce, senza intolleranze alimentari. Il pediatra, per mia fortuna dotato di humour inglese, mi chiese se avevo mai visto al ristorante qualcuno che ordinava un biberon di spaghetti coi frutti di mare: “Prima o poi imparerà che si mangia dal piatto”, e così mi diede l’ultimatum. Rassegnata a pensarla più come un uccellino che come un piccolo essere umano, la nutrivo a papponi biologici di miglio. In qualche modo divenne grande e ancora adesso che ha dieci anni mantiene le fattezze da Audrey, ma anche un percorso di degustatrice ufficiale di famiglia, grazie fortunatamente all’esperienza successiva accumulata dalla mamma in materia di alimentazione infantile.
Fortunatamente, infatti, si può sempre correggere il tiro, o quasi, in campo di educazione alimentare. Solo che se si meditasse un percorso a partire dal primo stadio sarebbe decisamente più facile, nonostante le opinioni contrastanti. Sorvolando sullo svezzamento del terzo e della quarta, replicanti perfetti dei primi due, arriviamo finalmente ad Agostino, quinto delizioso trottolino che già a tre mesi sedevo sul seggiolone durante i pasti principali della famiglia. Per assecondare la sua innata comunicatività, sicuramente favorita dai molti fratelli maggiori a disposizione; ma anche perché mi ero accorta che al mio bambino il tavolo imbandito suscitava un interesse molto particolare…
(segue nella prossima puntata)

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