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Di forconi, di lavoro, di do ut des

Creato il 14 dicembre 2013 da Einzige
Di forconi, di lavoro, di do ut des  Il lavoro non è una forza, è una definizione.E' al livello del segno - non in quello dinamico del materiale - che la sua violenza assume concretezza.Il lavoratore non è più un uomo, e nemmeno una donna: ha un suo nuovo genere assegnatogli dal lavoro, diventa cioé forza-lavoro. Non diversamente da quanto gli omosessuali sono segnati dal loro sesso, non diversamente da quanto gli invertebrati sono segnati dal fatto di non avere le vertebre.Prima di diventare elemento costitutivo del capitale, il lavoro è una struttura d'obbedienza a un codice: esso è il segno della trasformazione della natura in valore, ciò per cui si definisce la produzione - assioma portante della nostra cultura (e di nessun'altra). Il messaggio è lampante, cristallino: sradicamento della natura e dell'uomo dall'indeterminazione per sottometterlo alla determinazione del valore. E questa non possiamo non chiamarla 
violenza.
Le pratiche luddiste che nascono come funghi ovunque si posi l'occhio sono la reazione alla rabbia costruttrice dei bulldozer, alla rabbia civilizzatrice della merce: la defezione e il sabotaggio tradiscono l'evidente fragilità dell'ordine produttivo. Quando le macchine vengono comprese nella loro essenza di operatori immediati del rapporto sociale di morte (produzione, manipolazione, trasformazione, scambio), che è l'interruttore che accende il capitale, si prende coscienza della realtà.
Il lavoro oggi prevede individui interscambiabili, quantunque indispensabili. Il punto è che essi siano parte di una rete, siano dei terminali nella rete intermittente. L'uomo, il lavoratore, è invaso: il lavoro (anche inteso come tempo libero) è la repressione fondamentale che controlla la sua vita: occupazione permanente in posti e tempi regolati. La gente viene sistemata come libri sugli scaffali: in fabbrica, in ufficio, all'ospedale, all'ospizio, in spiaggia, in macchina, davanti alla tivù, nei supermercati.L'uomo non è più strappato alla madre, alla natura, per essere sacrificato sull'altare dell'industrializzazione: esso viene cresciuto accanto ad essa, vi s'integra dall'infanzia, assorbe le sue pulsione inconsce, le canalizza, lo avvolge anche quando questi stesso rifiuta il lavoro. Così il sapere, le conoscenze, le attitudini. Così il corpo, la sessualità, l'immaginazione.Che stronzata: l'immaginazione al potere! Non c'è cosa più stupida da dire. L'immaginazione è l'unica rimasta legata al principio di piacere, lontano anni luce dalla pulsione di morte incarnata e riversata dall'apparato industriale, che domina senza sforzo un altro apparato, quello psichico dell'uomo. Ma non c'è scampo. 
Anche questa, l'immaginazione, è fagocitata, inglobata dalla sfera del valore, annientata, sottopagata, sottomessa, vilipesa, ridicolizzata.
Di forconi, di lavoro, di do ut des
Il macchinario, il sistema scientifico, si trasla nella carne e nel sangue: è il macchinario collettivo che produce la produzione, che produce assuefazione alla produzione, rigenerando sé stessa sulla pelle dell'uomo. (Tra parentesi, mi vien da pensare a che errore grossolano abbia commesso Marx nel voler pensare la macchina come un mero strumento neutro, che questa, una volta liquidato il capitalismo, sarebbe tornata utile per la liberazione e l'affrancamento dell'uomo. Mentre è proprio nel macchinario, nell'ideologia scientifica, nella reificazione dell'umano, nella disatomizzazione della natura, nell'assolutismo del materiale, nella manipolazione attraverso il segno che si sostanza l'asservimento e l'imprigionamento nella griglia del lavoro-valore: fattori base + elementi variabili + interconnessione reciproca.)Quando la produzione raggiunge questa circolarità, è fatta: non ha più bisogno di un perché, essa viene sussunta, assurge a mito. Nella produzione e nell'economia tutto diventa scambiabile, commutabile, reversibile, secondo la stessa specularità indefinita che si ritrova nella politica, nei media, ecc.
E' l'allontanamento dall'unità, è la disgregazione: divide ac impera: siamo colonizzati: do ut des: siamo spinti ad essere rivali, piuttosto che solidali.
Se volessimo dare un nome alle cose, io suggerirei pulsione di morte: la nostra stessa organizzazione mentale non porta altro che all'auto-distruzione.
De-strutturiamo il sapere, sbricioliamo il pensiero dei nostri genitori, riprendiamoci l'aria - non abbiamo ricette alternative.

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