Gli italoamericani sono entrati nel nostro immaginario collettivo anche attraverso il cinema e la televisione. Il più delle volte con quelle forzature che affogano nell’odioso cliché, da Il Padrino ai Soprano. In quanti si sono lasciati affascinare e convincere che il successo all’ombra della Statua della Libertà sia tutto in un pugno di ferro, nel tiro alla fune che fa del Vito Corleone o del Tony Soprano di turno il braccio violento d’oltreoceano.
Se però mettiamo in conto che una famiglia italoamericana, prima dei suoi codici e delle sue regole, custodisce con gelosia il meglio della sua italianità, allora forse è il caso di dire che l’America sta cca’, come canterebbero i Terrasonora, e non nel quadretto televisivo della famiglia patriarcale della serie Dallas, tramontata insieme alla politica pirotecnica reaganiana.
Nel 1963 dal Sud dell’Italia Luigi e Concetta sbarcarono a New York e cominciarono a Queens una nuova vita. Nell’arco di tempo che va dall’America dei Kennedy a quella degli Obama, Luigi e Concetta vantano oggi una famiglia numerosa: più di 45 persone tra figli, generi, nuore, nipoti e pronipoti.
Condividere con loro una cena a ridosso della Pasqua, mi ha convinto che incrociare gli italoamericani in Italia è come il boato di un tuono per la nostra memoria. Le complicazioni di un pianeta testardamente globalizzato hanno cancellato la soluzione del rebus tatuato sulla pelle di ogni civiltà che si rispetti: chi emigra dona un valore aggiunto al Paese che lo accoglie.
Guardando negli occhi Rocco, Antonietta, Catherine, Antonietta junior, Francesca, Gina Marie e Giovanna, spicchio di questa numerosa famiglia che porta nomi italiani ma parla una lingua straniera, mi sono detto: Dobbiamo qualcosa a loro per aver schiacciato il cliché citato all’inizio, esportando negli Stati Uniti l’immagine autentica dell’Italia laboriosa e onesta.
I viaggiatori come me in realtà non hanno la vita rinchiusa nella famiglia d’origine ma la frazionano con tante altre anime conosciute lungo il percorso della vita. Catherine e le sue sorelle mi hanno restituito quel senso di libertà che conquistai nel 2005, attraversando gli USA su un autobus della Greyhound per oltre seimila chilometri.
Nell’aprile di dieci anni dopo è l’America che viene a farmi visita, ricordandomi che non si è mai abusivi quando il viaggio si è compiuto per riprendersi una vita vissuta insieme agli altri. Così accade che un Paese straniero diventi improvvisamente nostro, facendoci scivolare di dosso la sfacciata leggerezza da vagabondo.