Foto di Leo Angerer
La scorsa settimana un lettore piuttosto irritato dalle violente proteste contro i lavori per la Tav in valle di Susa ha posto una domanda che mi ero fatto anch’io: perché da noi è tutto così tranquillo? Qual è la differenza, quale la distanza che separa la percezione d’infrastrutture formalmente affini (la Torino-Lione laggiù e il Tunnel di Base del Brennero quassù) da parte di popolazioni diverse?
Secondo Franco Guzzetti, professore associato al Politecnico di Milano e referente scientifico per i progettisti del Bbt, questa differenza di percezione è priva di ragione, in quanto tali “opere si realizzano mantenendo parametri di sicurezza estremamente elevati e sottostando a norme molto severe. Gli standard sono identici ovunque si costruisca. Non può esistere alcun imprevisto, e ogni minima realizzazione deve essere compatibile con l’uomo. Insomma: è impensabile che sul Brennero si costruisce bene e in valle di Susa no” (tolgo la citazione da un’intervista pubblicata il 4 marzo dal quotidiano online della Fondazione Sussidarietà). Forse queste affermazioni possono apparire troppo ottimiste (gli imprevisti avvengono proprio quando meno te lo aspetti), resta però il fatto che la profonda discrepanza con la quale due popolazioni diverse percepiscono e soprattutto reagiscono a progetti assimilabili per finalità e impatto sul territorio meriti di essere approfondita.
Sepp Kusstatscher, portavoce dei Verdi e storico oppositore al Bbt, ritiene che in Alto Adige la protesta non si sia accesa a causa di un maggiore controllo delle spinte contestatarie. È una chiave di lettura che può dare adito a due interpretazioni completamente diverse: da un lato si potrebbe pensare cioè che il governo provinciale sia riuscito a “convertire” gli amministratori locali e a tessere una fitta rete d’interessi in grado di far apparire come inevitabile e buono un progetto altrimenti molto discutibile; dall’altro si potrebbe anche dire però che il ceto dirigente locale, a differenza di quanto accade in valle di Susa e nel resto d’Italia, gode effettivamente di una fiducia maggiore e dunque alla fine riesce a realizzare senza generare troppi conflitti quanto in genere si propone di fare.
È chiaro: la prevalenza dell’una o dell’altra interpretazione poggia su una considerazione complessiva della strategia di sviluppo legata al concepimento d’infrastrutture così grandi. Si tratta inoltre di una divergenza difficile da temperare ricorrendo a un freddo esame di dati tecnici e dunque costantemente a rischio di trasformarsi in una disputa ideologica. L’unica cosa certa: quando la disputa ideologica diventa guerra civile anche il confronto delle idee finisce per soccombere. Riteniamoci comunque fortunati che qui da noi questo non avvenga.
Corriere dell’Alto Adige, 9 marzo 2012