Parlando usiamo due strumenti: la reticenza e la ridondanza. Entrambe ci dicono molto di più delle effettive parole che usiamo perchè le mettono in relazione con il contesto.
“Eleonora ha una compagna di classe di colore. È l’unica di colore in classe. Questa sua compagna le ha regalato un bellissimo disegno fatto da lei. Arrivando a casa quindi Eleonora me l’ha mostrato dicendomi il nome di chi gliel’aveva dato. Visto che non associavo il nome alla persona le ho chiesto chi fosse.
“Quella che non ha potuto venire alla mia festa” è stata la sua prima risposta.
Visto che non c’era alla festa ho continuato a non capire.
“Quella che abita in quel palazzo vicino a Oscar“.
Hmm…no, la cosa non mi ha aiutato.
“Lei che è nel gruppo “blu” con questi altri bambini”
Non mi dice ancora nulla. E così abbiamo continuato per un po’ sino a quando le ho detto che me la farà vedere a scuola.
Arrivati a scuola me l’ha indicata e lì mi sono reso conto che nel mondo di Eleonora non esiste usare il colore della pelle per descrivere una persona. Sarà forse uno svantaggio quando giocherà ad “Indovina chi”, ma la cosa mi fa piacere”.
Questo racconto di un papà dopo il congedo parentale ci parla di un’assenza che ci dice molto sui valori della bambina.
E che si pone agli antipodi di quelle frasi in cui una ‘differenza’ viene citata anche quando non pertinente e non rilevante nel discorso. Mi vengono in mente molti articoli di giornale, di cronoca locale, in cui l’origine o il lavoro o il sesso di una persona vengono chiamate in causa senza avere nessuna pertinenza con l’accaduto. Ma non sono solo i giornalisti locali ad usare queste pratiche. Che fanno differenze, anche quando non ce ne sarebbe bisogno.
Parlare delle differenze, invece, è fondamentale. Segnalo questi link con alcuni consigli:
http://kidworldcitizen.org/2012/01/27/start-a-conversation-about-race-with-kids/
http://www.thedailybeast.com/newsweek/blogs/nurture-shock/2009/09/11/is-discussing-race-with-a-3-year-old-too-young.html
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