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Dopo Charlie Hebdo, la mappa del jihadismo globale. Intervista ad Arturo Varvelli

Creato il 22 gennaio 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

jihadismo

di Maria Serra

Gli attentati di Parigi e, soprattutto, le modalità con cui essi sono stati condotti, nonché la rete terroristica che sembra si stia sviluppando in tutta Europa – benché siano da verificare i legami tra le cellule finora individuate – hanno risvegliato l’attenzione dell’opinione pubblica e delle autorità nazionali sui problemi legati alla sicurezza nel nostro Continente e nelle sue più immediate periferie.

In un mondo sempre più interconnesso e pacificato – almeno apparentemente limitatamente all’Occidente –, le realtà quotidiane e all’apparenza più innocue si riscoprono invece insicure e – forse – maggiormente esposte ai rischi di nuove ondate di violenze di stampo terroristico. Gli attentati dei cosiddetti “lupi solitari” e gli attacchi condotti da piccole cellule semi-dormienti hanno infatti mostrato quanto queste minacce siano concrete, rovesciando parte di quella letteratura sul tema che riteneva il terrorismo e i fenomeni ad esso collegato posti su una traiettoria discendente. Quindici anni dopo l’avvio della “war on terror”, come si sta dunque riconfigurando la galassia jihadista?

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Ne abbiamo discusso con Arturo Varvelli, ISPI Research Fellow, esperto di Libia e Responsabile dell’Osservatorio Terrorismo per il medesimo Istituto. Consulente per la Camera e il Senato della Repubblica, per il Ministero degli Affari Esteri e il Parlamento Europeo, Varvelli ha curato numerose pubblicazioni, tra cui “Dopo Gheddafi. Democrazia e petrolio nella nuova Libia”.

Nonostante negli ultimi mesi si siano verificati episodi di violenza localizzata, quelli di Parigi potrebbero essere considerati i primi attacchi terroristici da parte di jihadisti di ritorno, la cui minaccia non consiste solo nella conduzione di atti offensivi ma anche di trasferire conoscenze, tattiche e tecniche anche a chi sul campo non è mai effettivamente andato. Chi sono questi combattenti? Come sono reclutati? Dove agiscono e come sono attivati una volta tornati nei loro Paesi di origine?

Certamente questi sono i primi attacchi compiuti da jihadisti di ritorno. Quello che possiamo constatare è che, oltretutto, questi elementi tendano a condividere tra loro le proprie esperienze e a radicalizzare e introdurre alle armi nuovi elementi. Parlare dell’esistenza di una rete consolidata è senza dubbio un’ipotesi troppo avventurosa, ma certamente rispetto a una settimana fa è cambiato qualcosa nella percezione degli analisti e dell’intelligence: pare che ci sia un invito generale a colpire, appunto una chiamata alle armi organizzata e finanziata. E il timing concordato in cui si sono succeduti gli ultimi eventi sembra andare in questa direzione. Quelli di Parigi e del Belgio non sono più attori solitari, sono un commando che è stato dormiente per un lungo periodo ma che è stato attivato presumibilmente dallo Yemen.

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Fonte: The Economist

Mentre il ramo yemenita di al-Qaeda ha rivendicato l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, Amedy Coulibaly si è attribuito la paternità degli attentati a Montrouge e a Porte de Vincennes in nome di IS, dimostrando almeno apparentemente una sintonia quantomeno nell’identificazione dei target da colpire. Al tempo stesso il fatto che AQAP accusi IS di tracciare un solco tra le fazioni jihadiste a causa del progetto di realizzazione del Califfato rischia di proiettare in Europa uno scontro tra le due sigle jihadiste. Cooperazione o competizione? Qual è lo stato dei rapporti tra i due network?

Io la definirei “coesistenza competitiva” per richiamare confronti storici di altro tipo. Le due organizzazioni convivono seppure siano rivali: sono frutto della stessa ideologia (la prima versione di al-Qaeda) e pescano nella stessa audience. A livello di leadership esiste una forte contrapposizione ma a livello di militanza di base invece possiamo notare una grande fluidità. Chi ha combattuto o si è addestrato in Yemen può essere stato e aver militato anche in Siria. A livello globale questa concorrenza è per noi occidentali alquanto deleteria perché ogni gruppo chiede visibilità e proclama la propria leadership jihadista.

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Fonte: Foreign Policy Research Instititute (FPRI)

L’arretramento dell’IS in Siria e in Iraq non certifica probabilmente un indebolimento del progetto di al-Baghdadi, quanto piuttosto un mutamento delle forme e delle strategie del jihadismo del Califfo. Ne sono un esempio la sempre maggiore assertività di alcune formazioni islamiste – penso ad Ansar Bayt al-Maqdis nel Sinai, ai gruppi islamisti di Gaza dichiaratisi di recente pro-IS come Mujahideen Shura Council, o infine, l’Islamic Youth Shura Council a Derna in Libia – nonostante il giuramento di fedeltà allo Stato Islamico o la formazione di nuove forme di consociazione in tutto il Levante arabo. Come si sta effettivamente trasformando la galassia jihadista?    

Descriverei il fenomeno jihadista attuale come un’idra con tante teste (i leader delle varie sigle) e con un corpo comune costituito da informazioni, finanziamenti, combattenti, supporto logistico, comuni basi di addestramento e safe-heaven. Non esiste una tattica comune: alcuni gruppi hanno prettamente obiettivi locali, altri più globali, alcuni si autofinanziano con attività illecite, altri le reputano un’apostasia. Molti tengono ad essere gruppi “indipendenti” o “nazionali”. È un mondo variegato e talvolta in contraddizione. Forse è una debolezza.

Al-Qaeda sembra giocare in difesa rafforzandosi nel sub-continente indiano dando origine ad AQIS (al-Qaeda in the Indian Subcontinent), mentre IS ha espanso la sua rete nel Caucaso (con l’affiliazione del ramo daghestano dell’Emirato del Caucaso) e in Estremo Oriente (sono stati attratti i gruppi minori di Indonesia e Filippine), puntando ora con decisione e in competizione con al-Qaeda verso l’Africa nera (da tempo si parla di un interesse di Boko Haram verso l’organizzazione del Califfo). Dal Sahel al Pakistan, come si sta componendo il mosaico del fondamentalismo islamista a livello globale?

Non è ancora chiara la capacità di IS di fidelizzare questi gruppi che quasi spontaneamente dichiarano la propria affiliazione, forse solamente per casi di fascinazione. Vorrei ribadire invece la maggior selettività di AQ, la sua struttura a network e la sua – purtroppo – constatata capacità di compiere attentati su tutto il globo, da Bali a New York. IS inoltre avrà nel prossimo futuro un grosso problema: un conto è conquistare, un conto è controllare e governare. La prima versione di IS, al-Qaeda in Iraq, a causa della propria violenza indiscriminata anche contro musulmani, ha dimostrato di poter fallire.

Qual è e quant’è stretto il rapporto tra failed States e nuove forme di terrorismo?

È un legame essenziale. Ovunque ci siano Paesi instabili o falliti tra Africa e Asia vediamo proliferare il radicalismo islamico violento. Un nesso troppo poco studiato e discusso nelle nostre cancellerie. L’identità islamica tende a compensare il vuoto di potere.

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Fonte: BBC

I fatti di Parigi, così come gli episodi condotti da lone wolf a Sidney, a Ottawa, a Gerusalemme, e quelli avvenuti sempre in Francia a dicembre, rivelano l’inadeguatezza delle misure anti-terrorismo, ancora legate ai criteri di sicurezza imposti dopo l’11 settembre. Al di là della discussione sulle possibili modifiche al sistema di Schengen, in che modo dovrà ora svilupparsi l’agenda di sicurezza a livello europeo e internazionale?

C’è uno studio statunitense che riporta statistiche sugli jihadisti rientrati da zone di guerra dal 1990 al 2010. In base a questi calcoli, l’11 per cento di questi diventa realmente pericoloso una volta rientrati. I combattenti che decidono di lasciare casa e famiglia e unirsi alla jihad sono quasi sempre immigrati di seconda e terza generazione oppure convertiti all’Islam che hanno seguito un percorso di radicalizzazione. In questo bacino vanno valutate nuove politiche di “counterterrorism”, innanzitutto nell’ambito della de-radicalizzazione. Ci vuole più coordinamento tra Paesi europei, tra UE e USA e tra Occidente e Paesi arabi. Potrebbe essere un nuovo impulso all’integrazione, non una motivazione per passi indietro.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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