Le ultime settimane non sono state molto favorevoli per Barack Obama.
Dopo aver minacciato la forza per punire Bashar Al Assad del presunto uso di gas nervino contro i ribelli, lo scorso 21 agosto, di fronte alla contrarietà della Russia di Putin, ma anche dell’ala liberal del suo partito, è dovuto tornare sui suoi passi per sottoporre la sua scelta della forza ad un voto del Congresso.
Poi, sorpreso dall’iniziativa del ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, che aveva preso sfruttato una idea di John Kerry, per indurre la Siria ad accettare il controllo internazionale del suo arsenale di armi chimiche, non ha potuto fare altro che dichiarare che tale sviluppo era da attribuirsi alla minaccia statunitense della forza.
E’ possibile che la strada seguita con Assad potrebbe anche costituire un precedente da utilizzare anche con la presunta atomica dell’Iran, tuttavia l’impatto sull’immagine di Obama della vicenda siriana non è stato molto positivo.
Quello del presidente è apparso come un corso d’azione ondivago e quasi mai attivo, ma molto spesso solo reattivo alle iniziative e alle posizioni altrui, dalla Russia di Putin ai colleghi più progressisti del suo stesso partito.
Una scarsa dimostrazione di leadership che stride molto con l’immagine di un uomo che aveva fatto della sua capacità di guidare, oltre le barriere razziali e delle differenze economiche, una delle sue caratteristiche salienti.
La stessa esitazione, Obama la sta dimostrando con la vicenda della scelta del successore di Ben Bernanke alla guida della Fed.
Nel gennaio del 2014, l’attuale guida della Banca Centrale americana dovrà essere sostituito e, in prima istanza la scelta del presidente era andata a Larry Summers, ex ministro del tesoro di Bill Clinton, ma anche suo primo charmain del Council of Economic Advisers.
Obama lo conosce molto bene e alla prima occasione, in due generazioni, in cui i democratici possono scegliere il capo della Fed, egli voleva scegliere una persona fidata.
Ma anche in questo caso, quando la decisione non era ancora stata nemmeno accennata ufficialmente era partito il fuoco di sbarramento contro il presidente.
E, ancora una volta, come per la Siria, i maggiori ostacoli sono giunti dall’ala liberal del partito democratico, quella stessa area che ha prodotto una figura come Obama.
Summers, alla guida della politica economica americana negli anni ’90, epoca in cui sono state assunte le maggiori decisioni in favore della deregolamentazione finanziaria (come l’abolizione del Glass-Steagall Act) che avrebbe causato la grande recessione del 2008, è apparso come uno dei principali responsabili di simili scelte.
Di conseguenza, già a luglio, 20 senatori democratici, da Sherrod Brown dell’Ohio a Richard Durbin dell’Illinois, avevano firmato una lettera in cui sostenevano che a Summers avrebbero preferito la vice di Bernanke, Janet Yellen.
Di fronte a un simile pronunciamento democratico che avrebbe costretto Obama a cercare voti tra i senatori repubblicani, Summers ha tolto d’impaccio il presidente con una lettera in cui, preventivamente rinunciava alla possibile nomina.
Un altro colpo al capitale politico di Obama, rieletto nemmeno un anno fa e che, ad oggi, appare debole come se avesse già trascorso un tempo almeno doppio del suo secondo mandato.
La ciliegina sulla torta è giunta in questi giorni, con la decisione della presidente brasiliana Dilma Roussef di cancellare la visita a Washington prevista per il prossimo 23 ottobre.
La ragione della sua rinuncia sarebbe da ricercarsi nelle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio massivo della Nsa statunitense non solo delle conversazioni della presidente, ma anche sulle strategie dell’azienda petrolifera di stato la Petrobras.
Era stato proprio Obama ad estendere l’invito e sebbene molti osservatori sostengano che il vertice bilaterale non avrebbe portato a molti risultati a favore delle ambizioni da grande potenza del Brasile, lo smacco subito dalla Casa Bianca è stato notevole.
Del resto, come avrebbe potuto comportarsi diversamente la Roussef?
Non pare possibile accettare che, tra nazioni alleate, ci si possa spiare come tra stati ostili. Soprattutto tenendo conto della secolare ingerenza statunitense negli affari interni delle nazioni latinoamericane.
Non solo, l’anno prossimo, in Brasile, si voterà per il rinnovo della presidenza e la Roussef ha voluto sfruttare le rivelazioni di Snowden come uno strumento per allargare il suo consenso a strati popolari, caratterizzati da sentimenti anti-yankee, che forse non l’avrebbero votata.
Al di là delle ragioni elettorali, la vicenda della Roussef evidenzia ancora una volta come l’America di Obama, in nome dei suoi interessi economici, preferisca mantenere verso il Sudamerica un atteggiamento di prevaricazioni ed egemonia, anche verso quelli che, a parole, dovrebbero essere i propri alleati moderati contro le “sovversive” nazioni di sinistra come il Venezuela di Nicholas Maduro o l’Ecuador di Rafael Correa.
Una linea d’azione non molto differente da quella seguita verso il lato sud dell’emisfero dal suo predecessore repubblicano George W. Bush.