Magazine Maternità
E intanto siamo ancora sul pullman, e io già penso a dopo, e l'autista ha una guida disinvolta e sportiva, che fa sì che la pupa, che pretende di star seduta da sola, sul suo sedile di fianco al finestrino, venga sbatacchiata di qua e di là, e ad ogni curva e ad ogni frenata mi aspetto che decolli verso i posti in prima fila, e l'afferro per una caviglia suscitando le sue più sentite proteste: "No, mamma! E' mio il piedino! E' mia la poltrona!".
- Pronto, dove siete?
- Stiamo andando al mare, io e Mimi.
- Con chi?
- Da sole.
- Ah, e come andate?
- Lascio la bici alla stazione degli autobus e poi prendo il pullman fino a Marina. Vuoi venire con noi?
- A marina?
- ...
- Mh. No.
La verità è che non mi interessa nulla di farmi le vacanze ideali. Non mi interessa il mare ideale, la spiaggia ideale, spiaggiarmi unta d'olio abbronzante esponendo un corpo scolpito a fatica nei lunghi mesi invernali appositamente per la "prova costume" (ah! Dannato lessico pubblicitario!).
E tutto sommato non mi rammarico nemmeno di aver perduto le mie solitarie incursioni lampo munita di asciugamano e mattonazzo cartaceo, le mie lunghe sessioni di lettura sulla riva conciliate dallo sciabordio delle onde, interrotte solo dai miei frequenti tuffi per prender fresco, chè il sole sulla pelle non l'ho mai amato troppo, e il mare per me non è mai stato sinonimo di "tintarella".
Sono felice quando la vedo entusiasmarsi di tutto, portarla a passare un pomeriggio, poche ore fuori città, misurare il proprio coraggio e la propria indipendenza avventurandosi nell'acqua bassa, via via sempre meno bassa, insozzarsi di sabbia fin tra i capelli e concludere il pomeriggio con un giro sulla "macchina di Aladino" (1 euro e 50 un giro in giostra? Ma dove andremo a finire? Ah, ai miei tempi...)
Non ho bisogno d'altro per stare bene, che di vederla stare bene. Ho smesso da tempo di pensare che potrei essere più felice di così, che la vita potrebbe essere più facile. So che non è vero, che ciò che possiedi non ti rende più soddisfatto, di te, della tua vita. Se mi è permessa una citazione un po' pulp, mai come ora sono più che convinta che davvero le cose che possiedi, a un certo punto ti possiedano, nella misura in cui senti di non poterne fare a meno, che la tua realizzazione è legata al loro raggiungimento, alla loro permanenza e mantenimento.
E davvero, sentire di essere indipendente da tutto, di potermene andare al mare con mia figlia anche senza bisogno di una macchina, due borse in spalla e lei a cavalcioni su un fianco, mi fa stare bene, in armonia con me stessa, in pace, senza nulla desiderare, nulla chiedere di più, un poco anche compassionevole verso chi non riesce a fare a meno delle comodità che si è sempre concesso, ed è lì ancora a lamentarsi dei parcheggi inesistenti e del prezzo di un posto prenotato in spiaggia con ombrellone e sdraio, e anche di chi si rifiuta di starci, corpo a corpo con questa umanità vociante, e un po' panzona, di asciugamani confinanti e pedate di sabbia in faccia, insalata di riso e cocomero al sacco, e se ne rimane ormeggiato a largo di calette irrangiungibili per i comuni mortali, a fare tuffi e sorseggiare drink da barche che solo il carburante per una giornata di relax ci parte lo stipendio mensile di un manovale.
Ne ho conosciuti, di questi ricconi, e non mi son sembrati più felici di me neppure con la loro attrezzatura da sub nella rimessa del barcone e la moto ad acqua con cui improvvisare spedizioni nelle grotte. A dirla tutta ricordo quella giornata in barca con quei ricconi come una giornata un po' penosa. Noi due ci guardavamo a disagio, sapendo che non era quello il nostro posto, che per quanto splendido quel mare dove ci avevano portato, non ce lo stavamo godendo come quando attraversammo Cape Corse in bicicletta, dormendo a sbafo nei camping a pagamento e mangiando fichi d'india sulla via.
Ed ecco com'è che ci ho pensato, proprio l'altro giorno mentre andavo al mare con la pupa.
Pensavo a quel ragazzo allegro e irriverente che girava per le strade deserte della città notturna con le mutande infilate in testa, per gioco e per raccogliere una sfida.
Pensavo a quelle corse sulla bici senza sellino lui davanti e io dietro, in piedi sul portapacchi, che schivava i passanti gridando loro in un italiano da flagello di Dio: "Non ce l'abbiamo i freni! Non ce l'abbiamo i freni!", il mocio in spalla, perché andavamo a pulire il pavimento del sottopassaggio della stazione, impiego ottenuto per procura di un tizio losco di nostra conoscenza che si pigliava tutti gli appalti di lavori del Comune e poi se li rivendeva a compensi da schiavista.
Pensavo anche allo schifo di quel sottopassaggio, al puzzo di piscio umano, a quel cinese che è passato sul pavimento bagnato a lavoro finito e tu che gli hai gridato, assai politically scorrect, e very pisan slang: "Oh, Cinese! Levati di 'ulo! La maiala de tu ma'!", ma anche all'orgoglio di chi a testa alta è fiero di fare bene anche il lavoro più degradante e alla spensierata noncuranza con cui spazzolavamo metri quadri di lastricato, fregandocene dell'oggi ed entusiasti per il domani.
Pensavo a quel ragazzo che era felice con nulla, e che metteva allegria intorno, che contagiava tutti col suo buon umore, che invitava tutti a casa sua, che fermava sconosciuti per strada offrendo loro da bere, nelle fredde serate di inverno, e portava in giro carrelli della spesa piedi di lattine di birra da due soldi, comprate all'Eurospin, e casa sua era sempre piena di voci e accenti diversi, e gente che rideva e tutti si sentivano a casa loro, sin dal primo momento in cui vi mettevano piede.
E pensavo a quel ragazzo che non si era mai curato dei soldi, sempre troppo poco dei propri diritti, che in nome di presunte amicizie finiva sempre per dare a fondo perduto, in tutti i sensi, e non ritirava neppure i vuoti a rendere, e non teneva mai il conto di quello che offriva, mai a mente ciò che prestava, e si curava sempre delle persone più che degli oggetti.
Pensavo a quel ragazzo che non aveva mai pudore di mostrarsi per quello che era, e che per questo tutti amavano, che non si faceva mai pensiero di essere fuori contesto, o di non essere all'altezza di situazioni, che era sempre sopra le righe e metteva chiunque a proprio agio, che ricordava tutti i volti e scordava tutti i nomi, a cui tutti confidavano guai e problemi, infelicità e dolori e a cui nessuno chiedeva mai come si sentisse, di cui tutti si accorgevano di sapere sempre troppo poco, che nessuno ricordava mai da dove esattamente venisse, e quale fosse la sua storia, ma che tutti affermavano di conoscere come un fratello.
Ma soprattutto pensavo a quel ragazzo che sapeva essere felice pur non avendo nulla, e che tutto ciò che aveva costruito intorno a sé l'aveva costruito partendo dallo zero assoluto, e senza sotterfugi né scorciatoie, e lo sapeva e ne era fiero, ma senza vantarsene.
E mi sono chiesta quand'è che hai iniziato a gettare la spugna, e a sentirti stanco.
Perché ora non abbiamo molto più di quanto non avessimo allora. Se possibile abbiamo meno soldi di allora, perché abbiamo sicuramente meno entrate.
Ma abbiamo della strada fatta insieme e molti bei ricordi, altri meno belli, e abbiamo una laurea e un'attività, e anche se ci sembrano insufficienti le abbiamo realizzate con le nostre forze e con l'aiuto di nessuno.
E anche se è una laurea che chiunque un poco sorride sotto i baffi quando dico in cosa, anche se non me la rivendo magari, so di averla conseguita con passione, amando tutto ciò che facevo mio.
E anche se è un'attività che conta più fatica di quanto non sia il rendimento e non è arredata da un interior designer, e non è nella guida verde del turista, e chissà se ce la sfanghiamo da questa crisi, l'hai inventata tu, da cima a fondo, con creatività e impegno, e presenza, e anche se dici di essere stanco e demotivato, lo so che la senti parte di te, e non te ne staccherai con facilità e non senza dolore.
E abbiamo portato piatti, infornato pizze, tagliato bistecche, servito vino, stappato bottiglie, annusato tappi, litigato con principali, ingoiato bile, asciugato bicchieri, spinato orate, mandato in culo colleghi, litigato ancora con clienti, ingoiato bile, lavorato fino a tardi, ballato a piedi nudi, collezionato sbornie, allineato voti sul libretto (io), smesso di fumare, ricominciato a fumare, smesso di fumare, smesso di bere (tu), macinato libri (io), preparato esami dopo le tre di notte (io e tu), riso per le repliche di Paperissima sempre alle tre di notte, dormito solo la mattina (soprattutto tu).
E ora abbiamo anche un'altra cosa che ci unisce, ed è questa bambina.
E non è giusto, io credo, non è così che deve essere, che un bambino porti pesantezza, e preoccupazione, e negatività. Un bambino dovrebbe portare nella vita di chi lo accoglie, energia e gioia, e fiducia e speranza. E pensare al futuro non dev'essere un'ossessione, dev'essere un progetto comune. Pensare al presente non dev'essere il sentore una sconfitta, dev'essere consapevolezza di un viaggio e soddisfazione e orgoglio di sapercene fregare di quel di più che non serve, che è solo un'illusione di felicità.
Ogni tanto vedo ancora quel ragazzo, anche se ormai è un uomo, ma lo riconosco ancora.
Per fortuna avevo solo creduto che fosse andato via.
E siccome ti vanti di non aver mai letto un libro "in tua vita", so per certo che non leggerai mai queste parole, ma mi piace che comunque tu qui dentro ci sia.
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