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E’ “buona” l’eugenetica contro i bambini Down?

Creato il 13 ottobre 2013 da Uccronline

Sindrome down 
 
 
di Benedetto Rocchi*
*Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa, Università di Firenze

 
 

Chiara Lalli è una figura emergente nel dibattito sui problemi della bioetica in Italia. Il suo blog è uno dei più consultati dai giornalisti. I suoi libri, che in genere pretendono di presentare tesi “controverse”, vengono recensiti con entusiasmo dai principali quotidiani nazionali (è il caso del Corriere della Sera con “La verità, vi prego, sull’aborto.” dove, con molta approssimazione scientifica si sostiene l’innocuità dell’aborto volontario per la psiche della donna); viene invitata da radio e televisioni quando si deve dibattere qualche punto alla frontiera della bioetica.

Così è successo ad esempio durante la trasmissione radiofonica “Tutta la città ne parla” andata in onda su Radio Rai Tre il 31 gennaio 2013 (a questo indirizzo il podcast). La puntata era dedicata alla giornata internazionale per la Sindrome di Down. Tanta attenzione verso un tema di solito trascurato dai mezzi di comunicazione di massa, era causata da uno spiacevole episodio che si era guadagnato la ribalta dei notiziari proprio in quei giorni: il caso di un ragazzo affetto dalla sindrome, figlio di immigrati, ai quali era stata negata la cittadinanza italiana perché, nonostante tutti i requisiti previsti dalla legge fossero ottemperati, il giudice non aveva ritenuto presente la capacità di intendere e di volere.

Seguendo uno schema consolidato la trasmissione, dopo avere proposto alcuni contributi di persone che si occupano di persone affette dalla sindrome per professione o per esperienza personale (un avvocato di una associazione che si occupa dei diritti dei disabili, la mamma di un ragazzo con la sindrome di Down) ha sottoposto il tema ai rappresentanti di due concezioni della bioetica contrapposte tra loro: il direttore di Avvenire Marco Tarquinio e appunto Chiara Lalli, presentata come “filosofa della scienza”.

Bisogna riconoscere al conduttore di essere stato buon giornalista, lanciando ai suoi ospiti una domanda alquanto spinosa. Il tema è stato introdotto, infatti, ricordando che in tempi di diagnosi prenatale e di diritto di aborto molti bambini affetti dalla sindrome non nascono più, proprio come temeva Jerome Lejeune, lo scopritore delle sue cause genetiche. In Italia si può stimare che ogni anno vengano abortiti più di mille bambini ogni anno per il semplice fatto di avere un cromosoma in più (i dati possono essere consultati qui). Tanto che nel 2004 è stato lanciato dal governo danese un piano che prevede l’accesso gratuito ai test prenatali per l’individuazione della sindrome e che in 25 anni dovrebbe rendere la Danimarca un paese “Down Free” (i primi effetti sono stati valutati da questo articolo pubblicato dal British Medical Journal). Un’iniziativa che ha fatto scalpore per la sua scoperta impostazione eugenetica: selezionare sistematicamente quali bambini “meritino” di venire al mondo e quali no.

Non è stato difficile per Marco Tarquinio porre a confronto il governo danese degli anni 2000 con il governo tedesco degli anni ’30 del ventesimo secolo. Quando è arrivato il suo turno, Chiara Lalli si è trovata in una situazione difficile: da un lato non poteva non sostenere con forza i diritti delle persone affette dalla sindrome di Down già nate; dall’altro, però, voleva difendere il diritto di sopprimere quelle non ancora nate. Non si è però persa d’animo, imbarcandosi in una argomentazione un po’ arzigogolata per mostrare la coerenza della sua posizione. Per chi non avesse voglia di risentire il file audio originale trascrivo qui sotto i principali passaggi del suo intervento prima di commentarli. Parlando della agghiacciante prospettiva di una Danimarca “Down Free” la “filosofa della scienza” ha sostenuto che “… bisognerebbe distinguere l’obbligo dal condizionamento culturale, da un invito, da un’idea. Insomma, ci sono molti livelli che si possono intravedere in una posizione del genere. Il punto fondamentale è che credo le singole scelte debbano sempre rimanere degli individui, individui già esistenti e quindi persone a tutti gli effetti su eventuali, possibili, potenziali, possiamo scegliere gli aggettivi che vogliamo, persone. Però ripeto, il nodo fondamentale è che se io come potenziale genitore decido di interrompere una gravidanza non implica questa mia scelta la mancanza di rispetto per determinate persone ma sto compiendo una scelta perché magari non sono in grado, non mi ritengo in grado di affrontare una situazione del genere. Quindi, in qualche modo, non è una lesione della dignità di altre persone, questo è un nodo fondamentale, è anche un po’ complicato da capire, però insomma … altrimenti è estremamente difficile non connotare una scelta di questo tipo come una scelta nazista, per usare un termine chiaro”.

Si può senz’altro concordare che sia “estremamente difficile non connotare come nazista” il piano del governo danese. Purtroppo le spiegazioni che, con un po’ di didattica degnazione (“è un po’ complicato da capire”) Chiara Lalli ha proposto ai radioascoltatori, non fanno superare affatto tale difficoltà. Vediamole in dettaglio.

Alla domanda se la Danimarca sia paragonabile con la Germania del Terzo Reich Chiara Lalli risponde di no proponendo due argomenti: a) il piano danese non è coercitivo (“distinguere l’obbligo dal condizionamento culturale da un invito, da un’idea”) mentre quello nazista lo era; b) i bambini non ancora nati sono solo persone “potenziali” mentre gli adulti che decidono della loro vita sono persone “a tutti gli effetti”. Si tratta di due tesi francamente deboli, che possono valere per tenere il punto in un dibattito radiofonico che si risolve in una decina di minuti ma che non reggono assolutamente ad una riflessione rigorosa.

Il punto a) è il più semplice da contestare. Il programma eugenetico nazista, dall’eliminazione dei disabili allo sterminio degli ebrei (perché sempre di eugenetica si trattava per i nazisti, basta leggere i testi della loro propaganda) è stato possibile perché nella società tedesca esisteva un sufficiente consenso su di esso. Per dimostrarlo qualche anno fa uno storico di Harvard, Daniel Goldhagen, ha pubblicato un saggio che è diventato un best seller mondiale intitolato “I volenterosi carnefici di Hitler”. Dunque il “condizionamento culturale” degli esecutori del programma era all’opera anche allora: le persone collaboravano spontaneamente, proprio come spontanea dovrebbe essere la scelta delle donne che decidessero di ascoltare l’”invito” lanciato dal governo danese ad eliminare tutti i bambini concepiti affetti dalla sindrome di Down. Dov’è dunque la differenza? Si potrebbe forse dire che in realtà la presenza di un regime totalitario rendeva molto più “costringente” la capacità di persuasione dei nazisti. Ma la filosofa della scienza Chiara Lalli saprà certamente che è stato John Stuart Mill (che certo non era un sostenitore del totalitarismo) a spiegare nel suo saggio “Sulla libertà” che il condizionamento culturale della maggioranza può essere tanto oppressivo quanto quello di un regime autoritario. In realtà, tutte le volte che viene riproposta questa distinzione tra eugenetica “coercitiva” (che sarebbe cattiva) e eugenetica “volontaria” (che invece sarebbe buona) per sdoganare nuovamente tale pseudo-scienza (succede sempre più spesso, non solo sul blog di Chiara Lalli ma anche su paludate riviste di filosofia), bisognerebbe ricordare che in entrambi i casi la vittima non viene ascoltata: per la persona eliminata l’eugenetica è sempre “coercitiva”.

E qui si comprende perché Chiara Lalli deve aggiungere il punto b) alla sua argomentazione affermando che i bambini con la sindrome di Down non ancora nati in realtà non sono “persone a tutti gli effetti” ma solo “persone potenziali”. Proprio per questo motivo non sarebbe necessario chiedere il loro parere per eliminarli. In questo caso l’eugenetica sarebbe buona perché le uniche “persone a tutti gli effetti” coinvolte, cioè gli adulti che dovrebbero decidere la loro eliminazione, prenderebbero tale decisione volontariamente. Per quanto l’argomentazione suoni decisamente capziosa è importante discutere esplicitamente la distinzione tra persone “potenziali” e persone “ a tutti gli effetti”. Chiara Lalli la enuncia come se fosse un fatto assodato, sul quale non c’è alcuna discussione, aderendo a una sorta di mantra che sempre più spesso si affaccia nel dibattito sui temi bioetici più scottanti (aborto, eutanasia, fecondazione artificiale). In realtà si tratta di un’affermazione di tipo filosofico e come tale può e deve essere sottoposta ad un vaglio critico, soprattutto quando viene utilizzata per giustificare le decisioni sulla vita o sulla morte di esseri umani.

Poichè dal punto di vista biologico il processo di sviluppo di un essere umano non conosce alcuna soluzione di continuità dal momento del concepimento fino alla morte, l’idea di “potenzialità” della persona deve necessariamente trovare un altro fondamento. Questo fondamento è l’autocoscienza. Sarebbe l’autocoscienza a rendere un essere umano “persona a tutti gli effetti”. In ultima analisi, quindi, sarebbe un particolare “funzionamento” del soggetto, la sua autocoscienza, che ne renderebbe l’esistenza “personale” e quindi di valore. Si tratta della versione moderna di un argomento filosofico con una lunga tradizione, i cui ascendenti nobili possono essere fatti risalire a Cartesio e Locke, basato sul dualismo corpo-anima, per quanto espresso nella sua moderna versione mente-corpo.

Nel nostro caso l’argomento si applica così: il bambino non ancora nato ha la potenzialità di diventare cosciente ma non lo è ancora, dunque è in qualche misura sottoposto alle scelte degli adulti che invece hanno già raggiunto lo stadio di autocoscienza (notate la particella usata da Chiara Lalli, che implica una subordinazione dei bambini rispetto agli adulti: le … scelte [delle] persone a tutti gli effetti su … potenziali …  persone). L’argomento è piuttosto debole: in base ad esso infatti si potrebbe giustificare una subordinazione dei diritti di una persona incosciente a causa di una anestesia o di uno svenimento, rispetto a quelli delle persone che la soccorrono. Anch’esse infatti sono in quel momento coscienti solo “in potenza”, proprio come il bambino non nato: eppure, come è ovvio, non ci sogneremmo affatto di non considerarle persone “a tutti gli effetti”. Anzi, è proprio il possibile risveglio della loro coscienza che normalmente viene invocato come ragione delle cure da prestare loro: tanto che viene viceversa suggerita l’eutanasia per le persone in “stato vegetativo permanente”, una espressione medica non corretta (l’esperienza clinica insegna che non si può dimostrare ex ante come definitivo alcuno stato vegetativo, tanto è vero che oggi si preferisce l’aggettivo persistente) usata per esprimere la convinzione che di quella persona ormai funzioni solo il corpo, mentre la mente sarebbe invece “morta”.

Al fine di renderlo più difendibile l’argomento della personalità “potenziale” viene spesso sviluppato introducendo una seconda condizione per l’esistenza della persona: l’esistenza di una capacità di giudizio e di un vissuto. Lo hanno fatto ad esempio Giubilini e Minerva, due bioeticisti italiani che su una delle più importanti riviste internazionali di etica medica hanno sostenuto la liceità morale dell’infanticidio, suscitando come è ovvio grande scalpore. Ho già mostrato in un articolo sulla stessa rivista alcune debolezze del loro ragionamento e i rischi sociali di una tale posizione bioetica. Vorrei però qui discutere la loro definizione di persona potenziale, in base alla quale arrivano a giudicare “sopprimibile” un neonato. Giubilini e Minerva affermano in sostanza che lo stato di incoscienza di un bambino non ancora nato o appena nato è diverso da quello che potrebbe temporaneamente vivere un adulto. Quest’ultimo infatti, avendo già un vissuto di cui ha memoria, al momento del risveglio sarà in grado di dare giudizi, e disporre del suo potenziale futuro e soffrire delle minacce alla sua esistenza. In realtà non è difficile mostrare che quella che sembra essere una condizione diversa è in realtà la stessa. Ammesso e non concesso che il bambino non ancora nato non abbia alcuna forma di coscienza (la scienza medica continua infatti a retrodatare tutta una serie di funzionamenti neurologici e di rapporti intensi di scambio con la madre fino a fasi sempre più precoci della gravidanza) è comunque tutta una questione di tempo: anche il bambino non ancora nato, se sarà lasciato vivere sufficientemente a lungo ad un certo punto potrà dare giudizi, disporre del suo futuro e soffrire delle minacce alla sua esistenza. Se accettassimo questa versione dell’argomento della coscienza, allora dovremmo postulare una gradualità dell’essere persona (e quindi dei diritti che ne derivano) via via che gli individui accumulano conoscenza e capacità di giudizio: è evidente infatti che un bambino di tre anni non ha la stessa capacità di un adulto di decidere del suo futuro o di valutare ciò che minaccia la sua vita; e lo stesso si potrebbe dire per distinguere tra adulti con differente grado di istruzione.

La verità è che l’argomento usato dai sostenitori dell’aborto o dell’infanticidio eugenetico andrebbe totalmente rovesciato. Infatti, almeno in un certo senso, siamo tutti persone potenziali. Come un bambino è un potenziale adulto, un adulto è un potenziale vecchio. Un adolescente che non ha ancora completato i suoi studi è un potenziale scienziato e allo stesso tempo un potenziale artista. Nessuno in realtà può realmente disporre del suo futuro ma solo accoglierlo con ciò che porta e richiede alla sua esistenza. Lo sviluppo dell’organismo neonato in organismo adulto è un processo altrettanto irresistibile e fuori dal controllo del soggetto di quello che porta un organismo adulto alla dissoluzione per una malattia degenerativa. Per non parlare dei legami che ci legano con il mondo che ci circonda: probabilmente a tutti, nel corso dell’esistenza, capiterà almeno una volta di esclamare ‘se avessi saputo prima!’; oppure di scoprire che quello che aveva ritenuto uno sbaglio si era rivelato come una preziosa opportunità verso qualcosa di imprevisto e positivo.

Ciò che connota l’essere persona è proprio il mettere continuamente in atto una potenzialità: un articolo un po’ difficile ma che illumina in modo affascinante questo punto è stato pubblicato on line da Damiano Bondi sul sito di mondodomani.org. Il vivere è un tendere verso qualcosa in ogni momento: è un processo in cui una inesauribile potenzialità continuamente si realizza. A partire dalla magnifica e misteriosa potenzialità contenuta nella prima cellula con identità biologica del tutto nuova che viene all’esistenza al momento del concepimento.

Se dunque siamo tutti persone potenziali allora più semplicemente siamo tutti persone (altri argomenti su questo punto possono essere trovati qui). La condizione esistenziale di un bambino affetto dalla sindrome di Down non è diversa da quella degli adulti che rivendicano un diritto di vita e di morte su di lui: semplicemente egli subisce la loro maggiore forza. Per questo Chiara Lalli si sbaglia. Per questo non esiste un’eugenetica “buona”. Per questo il programma eugenetico danese non differisce da quello nazista.


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