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È vero, lo stato delle carceri indica il grado di civiltà di un Paese. Ma in Italia l'illegalità è una prassi non più tollerabile
Creato il 29 gennaio 2012 da David Incamicia @FuoriOndaBlogLe parole pronunciate dal neo ministro della giustizia Paola Severino in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario non possono suscitare obiezioni: lo stato incivile del nostro regime carcerario (si legga in proposito l'ultimo Rapporto dell'Osservatorio Antigone), dopo tante battaglie e inutili denunce meritava una decisa presa di posizione sul piano dell'azione istituzionale. Il cosiddetto Decreto "svuota carceri", promosso dal ministro stesso e approvato con modificazioni dal Senato lo scorso 25 gennaio, va proprio nella direzione di rendere più efficiente il sistema di detenzione italiano, da tempo al collasso a causa del sovraffollamento.
E lo fa, in particolare, nel tentativo di rispondere a una duplice esigenza: quella di garantire maggiore rispetto dei diritti umani negli istituti di pena, per porre freno alla drammatica contabilità dei suicidi; e quella, in perfetta sintonia col nuovo corso improntato all'austerity, di consentire allo Stato di risparmiare notevoli risorse finanziarie (solo nel 2011, per ingiusta detenzione o errore giudiziario, le casse dell'Erario hanno dovuto esborsare 46 milioni di euro).
Secondo il Guardasigilli, insomma, un uso meglio calibrato della custodia cautelare in carcere - assieme a una maggiore celerità dei processi - porterebbe vantaggi non solo al sistema carcerario ma all'amministrazione giudiziaria nel suo complesso, senza alcuna controindicazione per la collettività se è vero che le esigenze di sicurezza dei cittadini possono essere alternativamente garantite da un ampio ventaglio di opzioni di cui già oggi il giudice dispone e che si può provare ancora a migliorare e a incrementare.
La linea del ministro sembra mossa da valide e sincere ragioni garantiste e incontra lo spirito che anima da lungo tempo l'impegno sul campo dei Radicali, autori di numerose inchieste sul dramma della giustizia carceraria: "lo Stato non ripaga mai con la vendetta, ma vince con il diritto e l'applicazione scrupolosa delle regole. Ed è questo il modo migliore per dimostrare ai criminali l'intima diversità tra legalità della nostra democrazia e ogni forma di intollerabile arbitrio". È in tale frase che risiede forse la sfida più ardua e decisiva che attende il governo di cui l'avvocato Severino fa parte e con esso l'intera società italiana, che deve essere disabituata a vivere al di sopra delle proprie possibilità e a pretendere rendite e privilegi ormai non più sopportabili dal sistema.
A tale missione vogliono assolvere i provvedimenti pur dolorosi appena varati e quelli calendarizzati in tema di liberalizzazioni economiche e di riforme sociali, ma ora è necessario, soprattutto in questa fase in cui i vari populismi della politica sembrano essere stati provvisoriamente disinnescati, affiancare agli interventi di natura legislativa azioni anche simboliche di tipo morale e culturale. Perchè essere liberali e garantisti non può far dimenticare che l'Italia, come dimostrano pure le barbare reazioni di alcune categorie sociali alle draconiane misure dell'esecutivo, è da sempre attraversata da istinti egoistici e da diffuse pratiche illegali, piccole o grandi che siano.
E certi abusi vanno puniti in modo esemplare se non a livello penale, visto che la frequenza con cui le vicende di malaffare assurgono alla ribalta delle cronache sta lì ad evidenziare che i tanti corrotti del nostro Paese non temono seriamente la prospettiva del carcere, almeno sul piano dell'emarginazione sociale e mediante l'espropriazione di beni e risorse accumulati indebitamente che vanno redistribuiti ai fini dell'affermazione del tanto invocato principio di equità.
Chissà, forse pure stavolta si tratterà solo di un caso ma da quando c'è stato il cambio di governo cominciano appunto ad essere divulgate con l'attenzione che meritano le notizie di frodi, latrocini, abusi e furberie di ogni sorta, perpetrati da singoli o da gruppi e a vari livelli della cosa pubblica. Senza passare frettolosamente e asetticamente fra le sbiadite pagine della "nera" ma accompagnate da commenti e approfondimenti di tipo sociologico e finanche economico considerato che fra le principali ragioni del profondo stato di disagio e di squilibrio sociale in cui versa l'Italia vi è certamente l'assenza di legalità, con particolare riguardo alla dannata evasione fiscale.
Come ha sottolineato Sergio Romano in un suo recente editoriale sul Corriere della Sera, le ultime rivolte partite dal Sud non devono trarre in inganno. Esse sono sì in parte mosse da ragioni di effettivo disagio, ma la posta in gioco è appunto la conservazione di privilegi che sono fondamentalmente locali ed estranei all'interesse nazionale, specialmente per quanto riguarda il regime contributivo che ad esempio nelle regioni a statuto speciale gode di garanzie sconosciute alla maggioranza dei cittadini italiani.
Per non parlare delle rivendicazioni ulteriori di autonomia, così come enunciate in questi giorni dai Forconi siciliani, che mal si conciliano con la consolidata prassi che ha invece indotto per decenni lo Stato centrale, stimolato dalla cattiva politica, a destinare a quei territori ingentissimi finanziamenti mai di fatto utilizzati per lo sviluppo ma finiti in gran parte nel circuito della criminalità organizzata.
Perchè i partiti e i sindacati nazionali, si chiede giustamente Romano, si comportano come se il compito di risolvere i motivi di protesta di questo o di quel territorio, di questa o di quella categoria, fosse esclusivamente dell'attuale governo? Chi vuole sforzarsi di indagare sui fatti oltre il proprio naso non può che trovare tali osservazioni fondate. E qui interviene l'esigenza di carattere "educativo" che deve essere esercitata anche dalla politica e dalle forze sociali, e che presuppone la volontà di affrontare energicamente le tante situazioni di illegalità.
Il rispetto delle regole, dopo anni e anni di riduzione - sempre per colpa della cattiva politica - ad allegro esercizio opzionale immune a ogni significativa conseguenza che non fosse la ricorrente indulgenza collettiva e nonostante l'organizzazione Transparency abbia confermato l'Italia fra le realtà più corrotte al mondo anche nel rapporto del 2011, deve tornare ad assumere la "normale" valenza di elemento caratterizzante e fondamentale del nostro essere sistema civile. Auspicio che non rimuove automaticamente i dubbi e le titubanze proprio della politica a schierarsi dalla parte obiettivamente più giusta, che almeno in teoria dovrebbe coincidere col benessere generale e non con i capricci insostenibili di lobby e corporazioni.
A questo proposito, una interessante analisi "laica", vale a dire sgombra da pregiudizi, l'ha svolta il glorioso quotidiano l'Avanti (che dopo la cialtronesca parentesi dello squallido Lavitola è di nuovo in pubblicazione). Al di là dell'approfondimento intorno alle ragioni storiche, culturali e antropologiche della refrattarietà italiana alle regole, il quotidiano giunge a una conclusione amara ma pragmatica al tempo stesso. Pur in presenza di fitte ombre che da sempre oscurano la realtà sociale del nostro Paese, solo gli osservatori disincantati e non viziati nel proprio giudizio da retropensieri ideologici possono sottrarsi alle trappole della propaganda e agli estremismi di chi alza la voce per protestare o per sostenere, spesso strumentalmente, chi le proteste le attua.
Di conseguenza, solo se si buttano a mare le finzioni e le ipocrisie dei partiti, i compromessi inconfessabili e i disdicevoli esempi di una miserrima classe dirigente, diventerà agevole rieducare i cittadini stessi - sistematicamente fiaccati nelle loro forze vitali da almeno vent'anni di rozza propaganda e di assoluta inazione - all'onestà e alla legalità. E magari far comprendere perfino a quanti oggi bloccano i taxi, i tir, le barche, i trattori e imbracciano i forconi che non è lo Stato il loro nemico ma chi l'ha a lungo rappresentato in modo indegno.
È una "mission impossible"? Pazienza, l'importante è che capiscano i cittadini corretti che non hanno mai avuto la possibilità di evadere, di ricattare, di sbraitare per difendere o per ottenere qualcosa e che oggi devono poter contare più di quelli che hanno contribuito, con la propria furbizia e col proprio egoismo, a rendere tutti più sofferenti sul piano sociale ed economico.
Il vero fisco "immorale", tanto per citare una delle espressioni più ricorrenti nelle proteste del cosiddetto popolo delle partite iva, non è quello imposto dallo Stato ma è quello occulto imposto dai disonesti che allignano fra gli stessi ceti produttivi. La Corte dei Conti ha qualche tempo fa quantificato il costo sociale dell'illegalità italiana: 120 miliardi di euro all'anno (quasi tutti dovuti all'evasione fiscale), pari a circa 4 mila euro per ogni cittadino.
Se poi alla corruzione "comune" - quella dei finti poveri, dei falsi invalidi, degli scontrini non emessi, delle frodi comunitarie e delle cricche varie - aggiungiamo la holding illegale per eccellenza, cioè la rete delle mafie, allora il costo si fa ancora più notevole: fra pizzo, usura, contraffazione, contrabbando, narcotraffico, prostituzione e reati cosiddetti minori, il giro di affari della criminalità organizzata si aggira intorno ai 130 miliardi di euro con un utile di 70 miliardi ovviamente esentasse.
Alla fine della giostra, care categorie indignate, il mancato gettito alle casse dello Stato è più o meno di 250 miliardi annui. Che significa che la corruzione, i guadagni illeciti, i ricavi non dichiarati sono la vera causa, assieme all'eccessiva spesa pubblica determinata dall'affollatissimo bosco e sottobosco politico, del nostro sciaguratissimo debito pubblico. Con tutti quei soldi le tasse si potrebbero quanto meno dimezzare in men che non si dica. E si potrebbe consentire alla generazione composta dai trentenni e ormai anche da molti quarantenni, di accedere ai meccanismi di mobilità sociale e di essere finalmente inserita nel mercato del lavoro.
Purtroppo, però, di toccare i privilegi - sia i propri sia quelli dei blocchi sociali che si intende rappresentare - la politica (quella dei partiti e quella dei sindacati) non ne ha mai voluto né mai ne vorrà sapere. Scontentare troppi potenziali elettori o iscritti, peraltro già fortemente garantiti, significa perdere consensi e allora l'illegalità si tollera considerandola quasi alla stregua di un ammortizzatore sociale, come ad esempio ha denunciato Nunzia Penelope nel suo ottimo libro-inchiesta "Soldi rubati".
Proprio pochi giorni fa, in una conferenza stampa congiunta tenuta alla Camera, Di Pietro e Vendola hanno lanciato un appello a Bersani affinchè questi riveda la posizione di sostegno al governo Monti adducendo come motivazione che "non si può regalare la protesta sociale in atto al populismo di destra". Ah sì, e a chi bisogna affidarla, al populismo di sinistra che sempre populismo antistorico e dannoso è? Si deve quindi far cadere Monti per paura di perdere le elezioni? Dobbiamo tutti continuare demagogicamente a usare il disagio (quello vero) della gente, per mantenere in vita uno status quo di fatto allo stremo?
Questa è la politica italiana, specchio fedele di una società mai completamente matura e consapevole. Una società che anche laddove riesce finalmente a comprendere cosa le è davvero più congeniale, non sa mai imporsi in nome della giustizia e delle regole nei confronti di chi disinvoltamente la rappresenta. Quando il direttore dell'Agenzia delle Entrate Befera, una settimana fa, ha rilevato che la lotta ai furbetti del fisco è diventata centrale solo di recente, non credo abbia voluto riferirsi a particolari fasi politiche degli ultimi anni ma proprio ai due mesi appena trascorsi sotto l'egida tecnica di Monti e della sua squadra.
E se qualche barlume di rinnovamento culturale si sta iniziando ad avvertire fra i cittadini, che in parte manifestano di non nutrire più alcuna ammirazione verso i drittoni che "sanno stare al mondo" dirottando invece il consenso verso chi quei furbi li combatte, è forse merito di Di Pietro e Vendola, di Berlusconi e Bossi, oppure di un Capo dello Stato che anche in maniera irrituale ha imposto il cambio di rotta al Paese e di un premier che quando deve decidere lo fa senza tentennamenti avendo finalmente come rotta solo il bene comune?
Passerò anche stavolta per antitaliano ma voglio citare una felice eccezione nel fosco panorama di speculazioni politiche e di rivolte sociali selvagge che sta angustiando il Paese, quella di un brianzolo molto diverso da altri famosi brianzoli che hanno dominato le cronache nell'ultimo ventennio. Non si chiama Brambilla o Cazzaniga ma Quamar Abbas, un paffuto trentasettenne pachistano che fa il venditore di rose nell'interland milanese solo che a differenza dei suoi colleghi immigrati - e della quasi totalità dei commercianti italiani come dimostrano i continui blitz delle fiamme gialle - rilascia lo scontrino fiscale ai clienti.
Non si allarmino le sempre solerti "guardie padane", Quamar risiede ormai da 10 anni nel nostro Paese ed è assolutamente in regola col permesso di soggiorno. Uno che compila e versa il suo F24 ogni anno fino all'ultima rata. Allora, ditemi, chi è più italiano fra lui che rispetta le regole per meglio sentirsi parte della nostra comunità nazionale e i milioni di nativi connazionali che al contrario se ne fregano del dovere civico e di assumersi le responsabilità a cui sono chiamati?
Se noi "cittadini purosangue" ci comportassimo tutti con la stessa onestà del nostro ospite venuto da lontano, forse la cancelliera Merkel sarebbe più disponibile ad allentare i cordoni della capiente borsa teutonica per alleviare le difficoltà italiane. Anzi, fose in quel caso l'Italia non avrebbe affatto bisogno di chiedere solidarietà e aiuti economici in sede comunitaria. Diamoci da fare allora, e non reagiamo stizziti solo quando in giro per il mondo ridono di noi e ci considerano indolenti e inaffidabili ma facciamolo attraverso la presa di coscienza reale e collettiva del fatto che il baratro non è stato ancora del tutto allontanato dal nostro orizzonte nonostante l'eccellente esordio dell'esperienza Monti.
Tuttavia, per tornare al tema della giustizia e del grado di civiltà di uno Stato, pur con tutti i nostri vizi e le nostre degenerazioni restiamo una fra le maggiori democrazie occidentali e abbiamo pertanto il dovere di coniugare le esigenze di rigore e di crescita sul piano economico col rispetto dei più basilari principi umani e civili.
Dunque, ben venga un provvedimento di clemenza che interesserà tanti diseredati finiti in galera solo perchè magari la vita non ha offerto loro alternative concrete. Ma se quei posti lasciati vacanti, caro ministro Severino, venissero poi rimpiazzati dalla miriade di truffaldini di casa nostra che con cadenza quotidiana vengono scovati dal fisco e dalle forze dell'ordine e che con la condotta illecita avvelenano il pane e inquinano il futuro dei propri stessi figli, credo che pure le organizzazioni umanitarie avrebbero assai poco da obiettare.
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