Le nostre radici ci mantengono in vita e sono le numerose sfumature dei colori che indossiamo. Se marciscono, ci sentiamo improvvisamente incolore, perdiamo l’equilibrio e disorientati ci aggrappiamo alla paura e al vuoto, perché solo guardando indietro possiamo comprendere e comprenderci.
Educazione Siberiana, romanzo d’esordio di Nicolai Lilin, è principalmente un vecchio album di ricordi che Nicolai, con nostalgico orgoglio e intatto senso di appartenenza, sfoglia lentamente pagina dopo pagina, raccontando la propria infanzia e la propria adolescenza, pezzi di vita vissuta con gli amici nel quartiere malfamato di Fiume Basso. Scritto in lingua italiana da uno scrittore russo di origine siberiana, il libro raffigura un affresco dai colori vivi e dalle linee nette di un intero popolo, quello degli Urka, espulso negli anni trenta dalla Siberia e stanziato coercitivamente da Stalin in Transnistria.
Gli Urka siberiani però non sono una comunità come le altre, sono in primo luogo una grande famiglia criminale, una società intera, con la figura preziosa dei nonni, custodi autorevoli della arcaica tradizione, e dei giovanissimi, ai quali si insegna a uccidere sin da piccoli perché nella loro filosofia «ai bambini viene insegnato che togliere la vita a qualcuno o morire è una cosa normale». Nicolai è figlio di questa comunità, criminale figlio di criminali: «da bambino per divertirmi giravo per casa cercando di beccare il momento in cui mio nonno o mio zio si mettevano a smontare e pulire le armi».
Incentrato sulle vicende delinquenziali di Nicolai e dei suoi amici, sul loro ruolo all’interno della comunità e sulla loro formazione criminale, Educazione Siberiana mostra, in tutti i suoi aspetti, una società estrema e fuori dal comune: le giornate trascorrono lanciando molotov nelle caserme degli “sbirri” o partecipando a spedizione squadriste contro ragazzi di altri quartieri che sfociano, come un fiume sordo, in violentissime risse e nelle quali si fendono impietosamente coltellate, si lacerano legamenti e le cicatrici rimediate sono il male minore: segno violento di una violenza, perpetrata e subita. Si va nel carcere minorile e poi si ritorna nuovamente in strada, a lottare, a vivere. Appena più grandi s’inizia a uccidere. Si uccide per sopravvivere, per far giustizia. Si uccide perché si vive seguendo la legge criminale siberiana.
In questo piccolo mondo i criminali vivono un manifesto e fervente sentimento religioso e seguono, inoltre, altre precise e inderogabili regole di comportamento, un loro codice d’onore: non si parla senza rispetto di una persona anziana, di una donna incinta, di un bambino piccolo, di un orfano o di un disabile. E ancora, non si stupra, non si fanno estorsioni e non si pratica l’usura, la truffa invece è prevista solo quando è rivolta verso lo Stato o i ricchi. Come in altre comunità criminali, anche tra i siberiani, c’è una linea che demarca le azioni lecite da quelle illecite, e pistola e crocifisso camminano insieme, facce della stessa medaglia, simboli estremi indivisibili ed essenziali.
Un codice etico nel quale l’ambiguità morale non trova argini e si può parlare perfino di criminali onesti. L’onestà diventa così la fedeltà ai propri valori, seppur valori criminali. Sfidando ogni ossimoro questo è uno degli aspetti più ricorrenti del romanzo, incoerenza morale che trova le sue forme di adattamento in quasi tutte le vecchie famiglie mafiose. Educazione Siberiana non è un libro denuncia, non è Gomorra di Saviano, ma neanche esclusivamente un’epopea criminale, un libro di brutalità cieca e lotte vane, vite perdute e inutili atrocità, di delitti e di castighi.
E’ anche un libro in cui emerge con forza malinconica anche la storia affascinante di un popolo ormai scomparso, delle sue usanze e abitudini, di un modo di fare e di vivere fuori dal comune, un passato di tradizione criminale perduta. Consapevole che l’albero senza radici cade e sospendendo, in una sorta di parentesi narrativa, il giudizio morale, Lilin cerca di preservare almeno la purezza del ricordo. Tentativo questo che Lilin intraprende sin da ragazzo, imparando ad eseguire l’antichissima arte del tatuaggio siberiano. Prima ancora che scrittore Lilin difatti è un tatuatore. Il tatuaggio, nella tradizione russa, racconta tutto sulla persona, dal ruolo all’interno della comunità alle esperienze carcerarie. Ma la pelle parla a chi la sa ascoltare: non tutti posso comprendere un linguaggio arcaico e complesso fatto di simboli codificati e nessuno può farsi un tatuaggio senza un valido motivo. I tatuaggi, nella tradizione siberiana, bisogna soffrirli, in quanto vengono fatti dopo aver vissuto un’esperienza particolare, un’esperienza criminale che solo il tatuaggio può raccontare. Emblematica era la figura del tatuatore all’interno della comunità: è lo scribo che racconta le vicende del suo popolo, il sacerdote che conosce quello che gli altri non sanno. Uno scrittore che, dimenticandosi di condannare, cerca di non dimenticare.
Dal romanzo di Nicolai Lilin è tratto il nuovo film di Gabriele Salvatores.
di Christian Dolci