Ero giovane, immortale e tutta carica di ormoni e impellenze bianche e nere. Avevo le mani piene di verità e convinzioni inespugnabili. Ed ero leghista.
Perché essere leghisti vuol dire soprattutto esserne convinti.
Venivo dalla realtà operaia delle nebbie, cresciuta con due genitori che lavoravano 60 ore a settimana: l’idea che potesse esserci un movimento politico fatto di persone semplici, vere, determinate a combattere la “Roma Ladrona” sembrava una buona soluzione all’emorragia di denaro che arrivava nella capitale e magicamente scompariva. Sembrava persino bella, e giusta, la voce che si alzava dalla pianura contro le genti inoperose del sud (perché è dimostrato che più ci si avvicina all’equatore e più la percentuale di fancazzisti e furbastri inspiegabilmente aumenta: sarà la bio-fisica del calore?).
Studiavo lingue straniere, ero inguaribilmente esterofila (malattia che si è esasperata con l’età e le peregrinazioni), ma amavo l’idea che ci fosse qualcuno che rinverdisse e conservasse la nostra cultura locale: un’orgogliosa lotta contro l’omologazione globale, che tanti altri paesi avrebbero dovuto intraprendere insieme alla Padania, per continuare a far cantare la loro terra.
Non avvertivo particolarmente le vibrazioni xenofobe che percorrevano i nervi della Lega: vent’anni fa si era principalmente federalisti, o poco di più.
Il giorno della rottura, per me e per la mia famiglia, fu quello dell’alleanza con Forza Italia e Berlusconi: senza sapere tutto quello che sarebbe arrivato dopo, i lavoratori padani duri, puri e onesti avevano rifiutato l’alleanza con il “padrone” dalla dubbia provenienza, dai traffici incerti e dalle ambigue collusioni con il potere della prima repubblica.
Non ci avevamo visto male: nonostante le prevedibili rotture e le machiavelliche riappacificazioni, le mille ipocrisie e le infinite promesse, la Lega è andata tradendo tutto ciò che rappresentava la sua essenza più sana.
Alleandosi con la Roma Ladrona diventandone parte integrante, ereditandone il peggiore nepotismo e la più bieca libidine per il potere (ho letto su “L’Espresso” che è un leghista a detenere la medaglia d’oro per il più grande accumulo di cariche pubbliche, 14), promettendo fedeltà a legislature piene fradice di indagati e collusi, garantendo l’appoggio a progetti di legge vergognosi e tacendo biecamente, invece, di fronte alle tende del dittatore libico sulle piazze d’Italia), ecco, esattamente così la Lega ha perso la faccia.
E anche il culo.
Dopo aver perso, nella sua scalata al potere, buona parte dei valori sani sui quali si basava, la Lega ha sapientemente premuto l’acceleratore sulle facili paure dell’elettorato di pancia, e la xenofobia è stata un’ottima risposta: un depuratore a maglie larghe, dove le stronzate passano a frotte perché non transitano dal cuore né dal cervello, ma semplicemente dagli sfinteri.
Una delusione cocente, per chi ci aveva creduto. Una malinconia per tutte le cose buone che si sarebbero potute fare ma che si è preferito barattare con la gloria, il successo, le poltrone e i sentimenti ignoranti.
Che un piccolo Andreotti dimori silenzioso dentro ognuno di noi, pronto a svenderci al primo barlume di gloria e successo? Può darsi. Ma di Andreotti bisognerebbe anche avere la cultura, lo stile e la furbizia.
I ciuccianebbia rimangono ciuccianebbia, anche con giacca, cravatta e auto blu. Soprattutto quando hanno venduto l’anima al diavolo, il culo a Gheddafi e i voti ai ruba-galline.
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