- Di Nuccio Franco
In questi giorni il calcio professionistico sta vivendo la sua massima espressione continentale con lo svolgimento della kermesse europea.
Dal punto di vista tecnico, qualcosa sino ad ora si è visto e nulla lascia presagire una manifestazione mediocre come lo è stato, invece, l’ultimo mondiale.
Tuttavia, ed è questo il dato importante, balza agli occhi una particolarità forse ritenuta di second’ordine ma che conferma come il calcio rappresenti una passione che prescinde bieche logiche razziali, etniche e religiose, trasformandolo in un momento di unione ed integrazione che va oltre qualsiasi discorso formale o colore della pelle.
Al di là dell’aspetto agonistico, ciò che più risalta, infatti, è la percentuale di atleti che, pur facendo parte di una determinata nazionale, hanno radici all’estero, fulgida dimostrazione di integrazione sociale.
L’esempio più importante è rappresentato dalla Germania da sempre tra i paesi europei con il più alto tasso di immigrati e molto spesso assurta agli onori della cronaca per fatti di razzismo e xenofobia.
Infatti, dei 23 giocatori selezionati dal commissario tecnico Joachim Loew,7 hanno radici all’estero , cinque di essi titolari della formazione teutonica. La squadra ha radici in quattro diversi paesi – cinque se vi si include la stessa Germania.
A prescindere dal risultato sportivo,dunque,un risultato l’ha evidentemente già ottenuto: aver attratto simpatie un po’ ovunque proprio in virtù di questa peculiarità multietnica che rappresenta una nuova filosofia sulla strada della multiculturalità.
Va sottolineato che dal 2007 la Federazione calcistica tedesca, in collaborazione con il suo sponsor, la Mercedes-Benz, ha indetto un premio per l’integrazione all’insegna dello slogan “Calcio: molte culture ma una stessa passione”.
La stessa Federazione ha poi avviato una serie di interessanti iniziative atte a favorire l’inserimento sociale dei giovani delle diverse etnie, al fine di avvicinare sempre di più i soggetti a rischio alla pratica del calcio ed ai valori di unità e solidarietà che dallo sport si possono trarre, evitando così il più possibile l’emarginazione.
Con riferimento ai giocatori,Lukas Podolski e Miroslav Klose sono nati in Polonia e si sono trasferiti da bambini oltre confine alla caduta del comunismo. Mario Gomez è nato nel Baden-Wuerttemberg ma il padre è spagnolo mentre Jerome Boateng, ha il padre ghanese.
Come non citare poi Mesut Özil, figlio di immigrati che dopo una lunga quanto tormentata riflessione, alla fine ha scelto di optare per la nazionale tedesca a scapito di quella turca o Ilkay Gundogan, anch’egli di origini turche.
A completare la lista Sami Khedira, di padre tunisino le cui parole spiegano meglio di qualsiasi altra cosa quel senso di appartenenza che, forse, solo lo sport è in grado di suscitare . “Non importa da dove ognuno di noi è arrivato, qui noi siamo la Germania, siamo tedeschi”.
Da notare che non più di due anni fa,ai mondiali sudafricani,della rosa facevano parte – oltre a quelli già citati – anche altri calciatori di origini non tedesche come Piotr Trochowski (Polonia), Marko Marin (Bosnia – Erzegovina) e Cacau (Brasile).
Oliver Bierhoff, manager della squadra e con un passato importante nel campionato italiano si dice orgoglioso affermando che “ciò dimostra che il calcio svolge una straordinaria funzione ai fini dell’integrazione. E’ bello vedere come questi giocatori diano il massimo per la Germania”. “La Federazione tedesca” aggiunge “ ha preso la più giusta delle decisioni al fine di evidenziare questa realtà delle migrazioni e la convinzione che giocatori con genitori provenienti da altri paesi siano un arricchimento per noi capaci di portare caratteristiche diverse, creatività diverse e una diversa filosofia della squadra”.
In un momento critico per il Vecchio Continente, dove la stessa Germania sembra mettere in dubbio l’unione politica ed economica, spesso arroccata nella difesa delle proprie peculiarità, l’esempio che viene dal calcio dimostra invece che l’integrazione può (e deve) rappresentare una formula vincente.
In altre parole, lo sport può essere un motivo di rivalsa sociale per tutti quei giovani appartenenti ai ceti più umili e con alle spalle un passato di stenti a dimostrazione che, quando ben integrati, si identificano incredibilmente con il paese in cui sono cresciuti.
Se questi sono i presupposti, è possibile guardare al futuro dell’integrazione con rinnovato ottimismo, consapevoli che a contare non sono l’etnia, la lingua o il colore della pelle ma semplicemente la determinazione, il senso di appartenenza, la giustizia sociale ed il cuore che non hanno nazionalità e non si prestano a distinguo di sorta.