Pensare l’impensabile sulla trattativa con la mafia
Questa deve spiegarla uno bravo. Supponiamo che questa storia della trattativa dello Stato con la mafia sia vera. Supponiamo, perché non c’è Travaglio che tenga: una verità accerata, per ora, non l’abbiamo. Ma supponiamo che sia tutto vero.
Allora, ricordiamoci un po’ di cosa parliamo. Siamo tra il 1992 e il 1993. La mafia ha ucciso Giovanni Falcone, peraltro a quel tempo già abbandonato al suo destino da gran parte dell’opinione pubblica e da pezzi di Stato, questo sì uno scandalo vero. La mafia è forte, lo Stato è debole, debolissimo, Tangentopoli sta spazzando via partiti e leader politici. La mafia fa paura. Uccide Paolo Borsellino e poi mette le bombe: Roma, Firenze, Milano. Lo Stato – debole, debolissimo – cerca di scendere a patti con Cosa Nostra, tenta la strada della cosiddetta trattativa: alleggerire la pressione sulla mafia per evitare altre stragi, altri omicidi. Alla prova dei fatti, ben poco pare che comunque sia stato concesso in questa trattativa, anzi: il 41 bis, vera “spina nel fianco” per la mafia, non viene toccato; non risulta siano state prese altre misure favorevoli a Cosa Nostra. Ma non è questo il punto. Il punto è, anche ammesso che la trattativa sia stata avviata e messa in pratica, dov’è il reato? Lo Stato, per liberare eventuali ostaggi, tratta continuamente con terroristi di quasi ogni specie in giro per il mondo: tratta e paga, spesso. Durante gli anni del terrorismo interno, e soprattutto in occasione del sequestro Moro, si parlò a lungo della possibilità di trattare con le Brigate Rosse (nei cui confronti si attuarono comunque misure simili a quelle che sarebbero alla base della presunta trattativa con la mafia). È nota l’esistenza, negli anni Settanta e Ottanta, di una sorta di lodo Moro, che prevedeva un accordo con l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), affinché l’Italia venisse salvaguardata da eventuali azioni terroristiche in cambio della possibilità, per i terroristi, di circolare tranquillamente su territorio italiano. E allora, perché non con la mafia? E, di nuovo, la domanda vera è: dov’è il reato?
Tifare Grecia?
Il quarto di finale tra Germania e Grecia agli Europei ha messo in luce un sentimento antitedesco e pro-greco su cui vale la pena riflettere. Non si parla, ovviamente, di calcio. Se si parlasse di questo è evidente che razionalmente la Grecia non avrebbe meritato nemmeno l’ammissione al torneo, considerando che qualsiasi sport pratichi quella squadra, certo non si tratta di calcio; e altrettanto evidentemente comprensibile, per questa ragione, sarebbe stato un sentimento di solidarietà, e quindi di tifo, nei confronti del più debole.
Ma, si diceva, qui non si parla di calcio. Il sentimento antitedesco e pro-greco era in gran parte dovuto alle note vicende extracalcistiche. È emersa una diffusa opinione per cui le colpe della crisi greca sono tedesche. Ora, molto si può dire sulla gestione della crisi greca da parte della Merkel, si può sicuramente dire che il governo tedesco si è distinto, nei mesi, per intempestività e magari anche ottusa rigidità.
Detto questo, la crisi ellenica ha come unico e vero responsabile la Grecia stessa, rappresentata negli anni da governi inaffidabili, incapaci, che falsificavano i conti, che accumulavano debito e rinviavano scelte irrinunciabili e necessarie. In parte, fatte le debite proporzioni e evidenziate le differenti ossature economiche dei due Paesi, l’Italia conosce benissimo le ragioni della crisi greca, perché le prova su di sé da decenni. E l’italiano medio è maestro nel riconoscere queste colpe nei suoi governanti. Eppure, nel caso del fallimento greco – probabile? imminente? – le colpe ricadono improvvisamente sulla Merkel. Altro atteggiamento in cui l’italiano medio è maestro: scaricare le colpe dei disastri su chi prova invece a metterci mano per evitarli (come attualmente prova a fare, con molti i limiti, il governo Monti).
Matteo Renzi
È stato il protagonista indiscusso della settimana. In parte l’ha voluto, organizzando l’ennesima convention spettacolo a Firenze. In parte ci si è ritrovato, quando l’Espresso ha tirato fuori quel bizzarro documento che qualche non meglio precisato uomo del Pdl – Verdini? – avrebbe proposto a Berlusconi, suggerendo in qualche modo un’alleanza col rottamatore del Pd. In entrambi i casi, Renzi non ha certo specifiche. La convention degli amministratori locali a Firenze non è un male in sé, anzi è occasione di confronto e fa emergere un Pd che può piacere o meno ma è se non altro vivo e attivo, almeno localmente. Nel secondo caso, l’uscita di quel documento non fa ovviamente gli interessi del sindaco e anzi gli crea attorno sospetti e diffidenze da sinistra. Eppure sono entrambi momenti sintomatici del personaggio. La tendenza a buttarla in convention è tipicamente berlusconiana, ma non è un male per questo. È un male perché offre sempre l’idea della vendita di un prodotto, con l’evento che ogni volta schiaccia sempre di più il contenuto, fino a far scomparire il prodotto stesso che si vorrebbe vendere (per la cronaca, ormai di questo prodotto sono rimasti due elementi: non esistono destra e sinistra; bisogna far fuori D’Alema e Veltroni. Un po’ poco.).
Il documento dell’Espresso è un ottimo corollario a tutto questo. Il personaggio Renzi – l’anti-Pd (il Pd diessino, più che altro) in maniche di camicia, giovane eppure ex democristiano, giovane eppure sindaco di una grande città, liquido come pochi altri esponenti di partito, abile venditore – è il perfetto erede del Cavaliere. E forse oggi è temuto più dai colonnelli del Pdl che da Bersani.
Novantadue minuti di applausi
E mentre continuiamo a interrogarci su personaggi di dubbio spessore, non è un esercizio inutile ascoltare e riascoltare l’intervento in Senato di Emma Bonino, in occasione del voto sull’arresto di Lusi. Mentre le manette tintinnavano allegramente, ecco la Bonino. Ha parlato di giustizia, in gran parte, ma in quei sei minuti ha raccontato il Paese che siamo e quello che dovremmo diventare, meglio di chiunque altro prima. E anche per questo, forse, non sarà mai il Presidente della Repubblica che, in fondo, non ci meritiamo.