A ventidue anni dalla strage di Capaci, l’eredità di Giovanni Falcone rimane più attuale che mai, essendo un patrimonio di duplice valore: da un lato le idee sulla giustizia, dall’altro gli ideali di giustizia.
Le idee – così spesso ignorate o volutamente dimenticate da una certa fazione politica– erano quelle di un giudice che considerava il Csm «una struttura da cui il magistrato si deve guardare» perché preda di «correnti trasformate in cinghia di trasmissione della lotta politica» (la Repubblica, 20/5/1990), che credeva nell’autonomia della magistratura ma pensava fosse «giunto il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del Pm finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività» (Convegno di Senigallia, 15/3/1990). Non solo: Falcone – persuaso che il Pm non dovesse «avere nessun tipo di parentela col giudice» – era del tutto favorevole alla separazione delle carriere, anche se si rendeva conto che, a sostenere questa tesi, il rischio era di essere «bollato» come un «nemico dell’indipendenza del magistrato», come uno «desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’Esecutivo» (la Repubblica, 3/10/1991).
Come se non bastasse, Giovanni Falcone aveva idee molto interessanti anche sulla mafia e sulle modalità di contrastarla. Tanto per cominciare era uno che credeva poco all’idea di una “trattativa”, convinto com’era che «al di sopra dei vertici di Cosa Nostra non esistono terzi livelli di alcun genere» (La Stampa, 30/7/1989). Sua, poi, è la firma in una delle prime sentenze – quella del 17 luglio 1987 – che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa, reato che tuttavia Falcone avrebbe poi considerato con estrema cautela dal momento che, a suo dire, non aveva «apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo – continuava – che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare, ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta»; di qui la denuncia, sempre da parte di Falcone, del rischio di finire «col mescolare nel calderone di Cosa Nostra tutto ciò che può assomigliargli» (La Stampa, 9/9/1991).
Tutte idee, queste, decisamente dissonanti – converrete – da quelle degli attuali professionisti dell’antimafia; forse è per questo che spesso e volentieri non vengono ricordate.
Tuttavia commetteremmo noi stessi un errore se, fermandoci qui, dimenticassimo che l’eredità di Falcone – lo dicevamo all’inizio – non è fatta solo di idee sulla giustizia, ma anche di ideali di giustizia. Ideali che lo rendevano sostanzialmente ottimista, che gli facevano dire che anche se «dovremo ancora per lungo tempo confrontarci con la criminalità organizzata», lo dovremo fare «per lungo tempo», certo, ma «non per l’eternità: perché la mafia – sosteneva - è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine» (“Cose di Cosa nostra”, Rizzoli, Milano 1991, pag. 154).
In due parole Falcone aveva capito che oggi il problema è che, più che sconfitti dalla realtà che contrastano, molti sono rassegnati dalla realtà che hanno dinnanzi; aveva capito che nella vita per vincere non serve vedere prevalere i propri ideali, ma averne cura, testimoniarli, salvarli dalle pozzanghere della delusione. Per questo, in fin dei conti, è stato ucciso. E per questo continua a vivere.