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FEFF 15 – Speciale_Hong Kong

Creato il 02 maggio 2013 da Eda

Vitale come al solito, ma minacciata in maniera sempre maggiore dall’industria della Cina continentale, il cinema di Hong Kong si presentava  a Udine con ben 9 film (2 co-produzioni) ripartiti tra i generi più rappresentativi dell’ex-colonia (film in costume, action, polizieschi), oltre ad un interessante programma dedicato a cortometraggi di registi esordienti. Le due pellicole che ho visto partivano dai migliori presupposti: un action fracassone di Andrew Lau e l’attesa conclusione della quadrilogia di Ip Man. Entrambi però si sono rivelate mezze – o intere – delusioni. Di seguito i perché:

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The Guillotines di Andrew Lau
Huet Dik Tsi, Hong Kong, 2012, 112 min.
voto: ★/4

Nell’epoca Qing le “Ghigliottine” sono un’unità speciale dell’esercito, chiamata ad entrare in azione nelle operazioni più difficili avvalendosi di particolari armi (sorta di frisbee taglienti dotati di lame rotanti; una cosa parecchio kitsch ma piuttosto figa). Il gruppo è chiamato ad un’ultima missione per catturare e uccidere l’eretico”Lupo” e il suo gruppo che combatte contro l’Autorità. Le Ghigliottine devono fare però i conti anche con l’arrivo della polvere da sparo e dimostrare di poter essere ancora utili alla causa. In realtà l’unica scena fracassona è quella d’apertura del film, utile a giustificare l’uso del 3D e null’altro. Da lì la discesa è costante: le scene d’azione sono limitate in favore di un plot dall’alto tasso moraleggiante e melodrammatico che tocca il punto più basso nella seconda parte, quando si concentra sulla figura di “Lupo”, un criminale che richiama nell’aspetto Gesù e che ha creato una sorta di comune dove vivono tutti felici e contenti come neanche nei peggiori spot Mulino Bianco. Il film di Lau ha ambizioni da kolossal, ma l’estetica è banale non spiccando mai a livello visivo  per originalità o potenza, tanto da rendere piatta anche una scena potenzialmente epica come il “bombardamento” sul finale. Ancora peggio va dal punto di vista narrativo, dove le velleità storiche si spengono su una storia manichea e personaggi stereotipati e privi di vita, verso i quali è difficile provare interesse anche perchè Lau si prende tremendamente sul serio, e dell’auto-ironia non c’è traccia. Così risultano quasi ridicoli i percorsi di presa di coscienza che attraversano un paio dei protagonisti, con una rappresentazione del Bene e del Male senza sfumature dove il Potere, cieco e insensibile a tutto, cerca di mantenere lo status quo. Ma davvero c’è modo e modo di trattare le cose e The Guillotines non riesce a soddisfare neanche i palati meno raffinati, in cerca di un pò d’azione.

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Ip Man – The Final Fight di Herman Yau
Yip Man – Jung Gik Yat Jin, Hong Kong, 2013, 102 min.
voto: ★★/4

Di nuovo Herman Yau al timone (aveva girato il prequel nel 2010) e cambio di protagonista (qui Anthony Wong, dopo essere stato interpretato da Donnie Yip e Tony Leung) per l’ultimo capitolo della saga dedicata alla rocambolesca vita del “maestro di Bruce Lee” (vagamente schernito tra l’altro in una delle ultime sequenze). Nonostante una fastidiosa patina nazionalista e vagamente revisionista, i primi due avevano il pregio di essere tra le cose migliori viste negli ultimi tempi dal punto di vista di coreografie e scene di combattimento,  ma chi si aspettava da The Final Fight un more of the same rimarrà deluso. Il Maestro, non più giovane, si è trasferito a Hong Kong dove insegna il wing chun in cambio di un tetto e un pasto caldo. Riluttante a menare le mani, è più propenso a fornire ai suoi allievi regole per una condotta di vita retta. Ne viene fuori un appassionato – ma scollacciato – ritratto della Hong Kong degli anni 50 e 60, dei suoi umori e delle sue atmosfere, mettendo in evidenza i cambiamenti sociali in atto nel periodo, richiamando idealmente la crisi attuale. La cosa sorprendente è la scelta da parte di Yau di accantonare le parti di combattimento in favore di un taglio melodrammatico venato di nostalgia, concentrandosi sulle varie difficoltà economiche (e non) della famiglia allargata formatasi attorno a Ip Man, rappresentato invece come umile e dimesso maestro di vita. Tra i vari side-plot il più convincente è quello che vede coinvolto un poliziotto, inizialmente allievo di Ip e poi passato a libro paga del boss locale, il “Dragone”, con il quale avverrà il final fight del titolo, in una scena però che non spicca particolarmente. Questo accantonamento, che riduce le sequenze d’arti marziali a 3-4 in tutto, è ancora più strano se si pensa che gli spunti in questo senso vengono forniti dal film stesso per poi essere lasciati languire o abbandonati del tutto. In alcuni casi risultano addirittura inutili dal punto di vista dell’economia narrativa (le dimostrazioni sindacali) o pretestuosi: il tifone voleva avere valore simbolico o richiamare un evento reale? Usato come ha fatto Yau lo rende un, neanche così incisivo, elemento coreografico. Una scena come quella della “danza del dragone”, dove coppie di combattenti sono chiamate a confrontarsi in bilico siu dei pali di legno, non è stata sfruttata se non in misura davvero minima, a conferma che di questo biopic action, a Yau la seconda parte interessasse davvero poco. Ci sono poi alcune ingenuità palesi che rendono la storia di Ip prossima all’agiografia, come la relazione con la moglie, quella – sin troppo platonica – con la cantante o l’induzione “forzata” da parte di quest’ultima all’uso dell’oppio. Il ritratto di una Hong Kong crepuscolare è quindi sì compiuto e a tratti anche efficace, ma lascia l’amaro in bocca per tutti gli elementi disseminati e non raccolti, non concretizzando mai le aspettative che si erano venute a creare.

 EDA


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