Era stata una giornata a dir poco pesante. Una di quelle che arrivi alle otto di sera e dici è finita o c’è dell’altro? Una di quelle giornate in cui ringrazi il cielo e la terra di avere una tata paziente che accetta di fermarsi per la notte perché tu alle nove stai ancora lavorando. Per cui se non ti uccide il lavoro, ti uccide il senso di colpa. Ma insomma sempre morta sei.
Il santuomo anch’esso provato da una lunga giornata di campagna con modella brasiliana (si lo so che suona strano ma magari è stancante) si è ritirato a casa sotto una pioggia battente alle nove passate. Una coppia di reietti (per di più a dieta) davanti a un’insalata.
Abbiamo messo il piccolo Inuit a dormire con il suo orsetto canterino, abbiamo guardato fuori dalla finestra che finalmente aveva smesso di piovere e abbiamo deciso che non poteva cominciare così il secondo centocinquantennio della nostra vita repubblicana, che non poteva passarci davanti tutto quel luccichio sbarlucichento e scoppiettante che si srolotava intorno a noi nel centro di Roma. Così senza pensarci due volte, abbiamo approfittato della tata, ci siamo vestiti e siamo balzati in sella alla motocicletta alle undici e passa come si faceva da pischelli. E ci siamo buttati nella dolce delinquenza della notte tricolore.
Non credevo mi toccasse, non mi sono mai sentita tanto italiana da emozionarmi davanti al tricolore. Però il Vittoriano illuminato di bianco, rosso e verde, e una marea di gente intorno a te che canta l’Inno nazionale è qualcosa. E’ un’energia che si estende sopra la folla e vola di testa in testa. E ognuno ha il suo pensiero, la sua emozione il suo mondo che si affaccia. Il mio era un mondo di ricordi e di speranza. Era Massimo Troisi che cantava alla giovane Sandrelli “quella dei fratelli”, era il profumo di Roma dopo una giornata di pioggia, era mio figlio che gioca a villa Borghese, era la giornata difficile che avevo avuto ma il giorno dopo era festa, era quella volta che siamo saliti su quella scalinata e ci siamo messi in coda per salutare Nicola Calipari, era la città in cui ero tornata a vivere, era il paese in cui ero tornata a vivere, era le bandiere che le quindicenni davanti a me sventolavano come a un concerto dei Tokio Hotel, ma non era un concerto dei Tokio Hotel, era una passeggiata per Roma con mia madre, era una notte fuori con il mio uomo. Stava tutto lì dentro quel canto e dentro quel sììììì urlato alla fine come una liberazione.