Il sentiero degli standard è molto, forse troppo battuto: perché si ripropongono ancora questi brani, spesso presi a prestito dal jazz al di fuori del suo ambito?
Innanzitutto amo suonare gli standard, penso che siano il terreno ideale per misurare la propria creatività. Il trucco è quello di sfruttare la scrittura dei grandi compositori come trampolino per apporre una firma personale, così come è sacrosanto conoscerne le parole, per riuscire a comprenderne l'andamento armonico e melodico.
Qual è il tratto distintivo del suo stile?
Mi concentro soprattutto sui suoni che riesco a produrre. E quando li metto accanto a quelli di chiunque altro cambiano, ed è proprio questo che rende gli incontri ancora più interessanti. Se non volessi essere influenzato da chi mi circonda, suonerei qualcosa di diverso dal jazz.
E' ammirevole il coraggio con cui affronta la sua condizione di sieropositivo. Il suo essere dichiaratamente gay le ha causato difficoltà al'interno della comunità jazzistica?
Non è andata sempre così. Per un certo periodo, soprattutto quando mi trasferii a New York, non volevo che si sapesse del mio stato, semplicemente perché non mi sentivo pronto e l'America era ancora più bigotta e puritana che mai. Poi ero nuovo in città e non sapevo che tipo di conseguenze tutto questo avrebbe potuto avere. Ma dopo mi feci coraggio ed eccomi qui. In fondo sta nella logica della vita, e tutti quelli che presumono di avere dei problemi con ciò che fai, in realtà devono fare i conti con quanto del loro personale ancora non hanno risolto.
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