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Fuori, oltre la porta, ma non troppo lontano.

Creato il 16 ottobre 2011 da Unarosaverde

Venerdì pomeriggio ho finito la fisioterapia. Dalla fine di giugno questa stanzina stretta, troppo stretta per quattro terapiste e i loro pazienti, già troppo costosa così, per le logiche della sanità pubblica, mi ha accolto tre volte a settimana. Gli inizi sono stati pessimi: mi faceva male tutto, ero impaziente, seccata, stufa per i due mesi di immobilità forzata, inferocita perché dovevo ricorrere in continuazione all’aiuto degli altri. Al primo incontro avevo risposto che il mio livello di dolore, in scarico, era due su dieci. “E che ti avevo detto su quello alla mobilità?” ho chiesto immemore. Non registrato. “Metti sette, va là, non esageriamo”. Tre settimane dopo aver iniziato, in piena infiammazione, quel sette diventava dieci solo se mi avvicinavano le mani alla rotula. Durante le vacanze estive poi si è sbloccato qualcosa: dopo l’azione combinata degli anti-infiammatori e della curiosità fortissima per il mio pezzo di Inghilterra da scoprire zoppicando, a settembre sono tornata ad occupare il lettino con tutt’altro spirito, consapevole che la parte difficile era passata. Cartella di dimissioni: “metti zero da ferma, due con il movimento. E l’anno prossimo ricomincio a pattinare in estate e a sciare d’inverno.”

Sono uscita sapendo che tornerò, ogni tanto, ad infilare la testa nella stanzina per dire “ciao, state bene?” L’ho visto fare, in questi mesi, da tanti. Sulle prime non ne capivo il motivo: io non vedevo l’ora di chiudere la faccenda in un cassetto della memoria e addio. Adesso lo so perché tornano. Tornano per gratitudine, per il lavoro paziente, per l’attenzione, per la cura. Tornano perché si ricordano che il dolore fisico, sotto le dita abili, pian piano si attenua e farsi un caffè da soli è di nuovo un’azione banale. Tornano perché si chiacchiera volentieri in quella stanzina, nella penombra dei pomeriggi d’estate, sotto le pale di un ventilatore che smuove l’aria densa. Si parla, si scherza senza alzare la voce, si ascolta la radio in sottofondo, ci si scambiano pezzi di vita, piccole cronache locali. Le parole leggere coprono i gemiti, rendono meno intenso il sudore che cola per il dolore e per lo sforzo. Io, per esempio, ho ammorbato loro e gli astanti con la storia della coppetta mestruale, con i resoconti dei miei giretti settembrini, con i deliri sul piano B, con le trame dei libri che leggo e con le domande più infantili: “non ti sembra che mi sia rimasta la gamba storta?”. “No, secondo me era già così.” Leggono anche loro e viaggiano pure, le fisioterapiste, e mi sono portata a casa un libro in prestito e ho detto il solito ciao del venerdi, non un saluto definitivo, perché tra poche settimane passerò a restituirlo e a spiare i volti nuovi, dei prossimi in nota tra quelli che popolano le interminabili liste d’attesa.

Tanti, da quella stanza, non possono allontanarsi mai troppo. Ci sono persone che hanno subito traumi che avranno conseguenze per tutto l’arco della loro vita. Molti di loro sono giovani. Ci sono gli anziani a cui una banale frattura  scatena sabba inarrestabili all’interno del corpo. Ci si fa male in innumerevoli modi: un incidente stradale, una distrazione, una caduta. Certi segni, certi vuoti, poi te li porti sul corpo per sempre. Una delle prime cose che guardo nelle persone sono le mani perché, come il viso, raccontano molte cose. Quando ho iniziato a lavorare nel settore dell’industria metalmeccanica mi sono accorta con sgomento che a molti operai mancano pezzi di dita. A volte è solo la falangetta, nella zona dell’unghia. A volte è il dito intero. Capita. Si possono prendere tutti gli accorgimenti tecnologici possibili per mettere in sicurezza una macchina ma, spesso, è questione di un attimo, di una distrazione. Cede un fermo, ci si sporge, ci si impiglia, si aprono i carter eludendo i blocchi. Succede ai giovani, succede agli esperti. Succede al lavoro, succede in casa sulla scaletta mentre si fa il cambio stagione tra gli armadi.

Quando ero piccola mi dicevano: “non guardare, non fissare, non sta bene” e io non guardavo e a me alcune cose, alcuni handicap, facevano paura, una paura mista alla voglia di vedere da vicino cosa ci fosse, di così strano e perché non lo si poteva osservare bene e farselo spiegare per ridurlo ad immagine nota. Non mi piace molto fare domande personali alla gente: se mi raccontano, ascolto e partecipo ma difficilmente inizio io la conversazione, per paura di sentirmi rispondere “e a te cosa te ne frega” o del suono di una frase fatta e bugiarda. In questi mesi ho capito che certe domande si possono fare, per smettere di aver paura, e che le persone hanno bisogno, di solito, di raccontare la loro storia. Può essere solo una banale distorsione giocando a tennis, può essere la descrizione di una deformità che è iniziata ancora prima di nascere.

E ti ritrovi seduta, accanto a qualcuno che ti parla di sé, mentre fate gli esercizi, e tu smetti, improvvisamente, di vedere le stampelle che lo aspettano lì vicino, la linea rossa delle dita tranciate e riattaccate, un braccio che non sporge più fuori dalla manica della maglietta. E ti accorgi che non hai più timore di guardare, che questo qualcuno non ha vergogna a farsi vedere, o, se ce l’ha, non vede l’ora di liberarsene. E quello che sembra, a prima vista, anormale, sfuma sullo sfondo, per lasciare spazio ad una persona qualunque, completa, ai suoi occhi, alla sua voce, ai suoi pregi e ai suoi difetti, ai suoi desideri, frustrazioni, conquiste, alle piccole sciocchezze quotidiane che costellano la vita di tutti, al racconto dell’ultimo successo scolastico dei figli. E ridi con lei, se ride di se stessa, e di colpo capisci perché non hai mai sentito nessuna delle fisioterapiste, in questi mesi, perdere tempo a pronunciare banali e vuote parole di pietismo. Nessuno è messo peggio di un altro, nessuno ha diritto a indulgenza, nessuno compila la lista dei casi senza speranza.

E’ per questo che molti tornano a salutare, perché in quella stanzetta si guarda in faccia la sofferenza, si tocca la deformità, si ridisegnano i confini della mobilità. Non si lascia all’handicap più spazio di quello che si è già preso: fuori dalla porta c’è la vita che aspetta, tutta quella che ognuno può, vuole, deve, ha il diritto di prendersi. “Come va oggi? Dove senti male? Qui? Va bene, sdraiati che cominciamo. Cosa cucini stasera a cena? Io non so cosa fare: dammi un’idea.”


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