Magazine Cinema
di David Ayer
con Brad Pitt, Shia Labouf, Logan Lerman
Usa, 2014
genere, guerra
durata, 134'
La storia narrata, che David Ayer porta sullo schermo con “Fury”, inizia quando la guerra è conclusa agli occhi del mondo ma è più che mai viva agli sguardi dei soldati che devono ancora debellare gli ultimi residui di resistenza disperata da parte dei nazisti, che in comune hanno l’essere tutti ignari o noncuranti del fatto che la Storia, quella con la “S” maiuscola, ha già fatto il proprio ri/-corso.
Accade dunque che l’avanzata solitaria di “Fury” - nome dato al carrarmato capitanato dal sergente “Wardaddy”, interpretato da un Brad Pitt che dà al suo personaggio i toni inquietantemente pacati di un uomo segnato da qualcosa di non ben definito né tantomeno definibile - sia descritta tramite la claustrofobia della vita al suo interno - dove cinque uomini combattono a vuoto per una sorte che è già stata definita - e nell’ancor più angusta messa in scena degli spazi esterni che ospitano il lento incedere del cingolato - complice una raffinatissima fotografia che riprende spesso le figure in controluce o comunque avvolte da nebbie e fuliggini diegetiche ma al contempo quasi oniriche, mantenendo la medesima atmosfera anche nei pochi interni -. L’elemento religioso, spesso inserito con la reiterata recita del “Padre Nostro” o con citazioni di versetti del Vangelo, diventa una presenza forte quanto necessaria, dal momento in cui stabilire un rapporto umano, e specialmente amoroso, non è cosa che la Natura della guerra può contemplare - si veda l’incontro sbrigativamente tragico tra Norman ed Emma -.
E se gran parte del narrato è ambientato in giornate cineree nelle quali il tempo e lo spazio appaiono piatti allo stesso modo, l’oscurità che avvolge il contesto della battaglia finale mette in risalto i colori caldi del fuoco e del sangue - alcune tonalità richiamano abbastanza esplicitamente “Apocalypse now” - rendendo “Fury” un piccolo gioiello che, al pari dell’”American sniper” di Eastwood - film che la critica italiana ha additato, come del resto aveva fatto anni fa con “Arancia meccanica” e “Full metal jacket”, come film di destra, definizione di cui si fa seriamente fatica a capirne il significato - potrebbe gettare delle solide basi per l’avvento di una “Nuova New Hollywood”. Antonio Romagnoli
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