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Giordania e Califfato: l’impegno bellico e la guerra mediatica

Creato il 12 marzo 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Sara Brzuszkiewicz 

Fin dalla comparsa sulla scena mediorientale nel 2012 nelle sue mutate forme – dapprima come Stato Islamico di Iraq, successivamente come Stato Islamico di Iraq e al-Sham (Levante) e, infine, come Stato Islamico (IS) –, il fenomeno IS e la minaccia, concreta o presunta, da esso rappresentata ha condotto i Paesi del cosiddetto Grande Medio Oriente ad affrontare un complicato reshuffle delle proprie alleanze e degli equilibri politico-strategici attualmente vigenti nell’area. In questo “grande gioco” che sta rivoluzionando gli assetti mediorientali, la Giordania ha sicuramente assunto un ruolo di primaria importanza, politica e militare. Il coinvolgimento giordano è andato riconfigurandosi, infatti, a seguito della brutale uccisione del pilota Muath al-Kassesbeh, divenuto nuovo eroe nazionale, da parte dei combattenti del DAISH [1].

La reazione giordana e la suddetta riconfigurazione sembrano incardinarsi su due elementi distinti: l’effettivo impegno bellico e la guerra simbolica e mediatica ingaggiata contro il Califfato. Risulta pertanto indispensabile chiedersi quale sarà la reale intensità della partecipazione giordana su questi due terreni di scontro – il piano militare e quello mediatico –, nei confronti dei quali il Regno appare destinato ad assumere posizioni funzionali all’obiettivo ultimo: la salvaguardia dell’eterogeneità etnica attraverso l’uso di un messaggio politico positivo e inclusivo delle diversità, favorevole a garantire unità nazionale e, allo stesso tempo, volto a identificare nell’IS il nemico comune da combattere.

L’iniziativa giordana: impegno bellico e diplomazia - L’8 febbraio scorso, cinque giorni dopo il rilascio da parte dell’IS del video che mostrava la morte di al-Kassesbeh, la Giordania aveva già condotto 56 attacchi aerei contro le postazioni del Califfato nel nord della Siria come parte della coalizione internazionale anti-IS e in rappresaglia contro l’uccisione del pilota della Royal Jordanian Air Force.

In un ormai noto e mediaticamente allettante gioco di nervi, le autorità giordane avevano trascorso le settimane precedenti negoziando con i rappresentanti del Califfato la restituzione del pilota in cambio del rilascio di una mancata kamikaze irachena, Sajida al-Rishawi, condannata a morte per gli attentati di Amman del 2005, e con lei di Ziad al-Karbouli, considerato uno degli “ufficiali” del network di al-Zarqawi – leader di al-Qaeda in Iraq e creatore dell’embrione di quello che è oggi l’IS –, in carcere dal 2007. Oltre ai bombardamenti aerei su Siria ed Iraq, Re Abdallah II ha spostato truppe di terra al confine con la regione irachena di al-Anbar. L’esercito di Amman si è schierato nell’area di Ruwaished, opposta alla città di frontiera irachena di Trebil. Non ha invece ancora trovato conferma ufficiale la notizia di bombardamenti giordani su Mosul.

Il Ministro degli Esteri giordano Nasser Judeh e soprattutto Re Abdallah II, hanno più volte avvertito del fatto che la rappresaglia per la morte di al-Kassesbeh sia in realtà solo l’inizio di una strategia di più ampio respiro che apre ulteriori spiragli per un rafforzamento della cooperazione bilaterale con gli Stati Uniti. Lo dimostrerebbe, infatti, la decisione di Washington, il 4 febbraio scorso, di ampliare a un miliardo di dollari l’anno per il triennio 2015-18 gli aiuti economici e militari verso Amman (precedentemente erano 660 i milioni l’anno per un quinquennio).

In ambito internazionale, la Giordania era talvolta considerata, fino all’inizio di febbraio, l’anello debole all’interno della coalizione internazionale. A far sì che si temesse una partecipazione minima e discontinua da parte del Regno era l’opposizione interna al coinvolgimento militare contro DAISH [2]. Un sondaggio risalente soltanto al settembre scorso, inoltre, rivelava che allora solo il 62% degli intervistati considerava lo Stato Islamico un’organizzazione terroristica.

In seguito sono giunte le già citate prove di forza giordane che paiono aver tranquillizzato gli alleati sull’affidabilità dell’impegno del Paese. La Giordania ha sferrato l’offensiva militare per accontentare chi all’interno era ad essa favorevole, prime tra tutte le tribù legate a quelle sunnite irachene oltreconfine (come i Karak in Giordania o gli Albu Nimr in Iraq) che pur non si riconoscono nello Stato Islamico, e l’opinione pubblica infiammata dall’esecuzione del proprio eroe. Tuttavia non sembra essere in corso nessuna netta virata nella politica estera e militare di Re Abdallah II. Il monarca rimane cauto ed è verosimile che l’impegno bellico resti contenuto e che, in maniera meno spettacolare, prosegua la potenzialmente proficua iniziativa diplomatica. In merito al primo aspetto è probabile che l’impegno hashemita resti prevalentemente aereo e che ad esso vengano affiancate operazioni mirate e di intelligence in Siria e Iraq. L’esercito giordano può contare su oltre 110mila effettivi e tra essi 14mila membri delle forze speciali. Nonostante il soddisfacente potenziale bellico, appare tuttavia poco plausibile che il Direttivo Generale di Intelligence giordano, storicamente impegnato a contenere le minacce esterne e i conflitti dei vicini, possa aumentare ulteriormente i propri sforzi per semplici motivi di rappresaglia. Al dispositivo di sicurezza nazionale si aggiungono, infine, gli aiuti militari messi a disposizione da Washington, che provvede con circa un migliaio di propri militari, con compiti di addestramento e formazione delle forze giordane nella base di Azraq, nel governatorato di Zarqa, nella difesa nazionale dalle minacce interne ed esterne al Paese. Dal punto di vista diplomatico, la Giordania già da mesi si è posta come guida delle già citate tribù sunnite opposte al jihadismo. Contando su ciò di cui il Paese è ontologicamente ben consapevole, ovvero la natura transnazionale dei legami inter-tribali, Amman già lo scorso luglio ha ospitato 150 figure claniche dell’opposizione irachena al Califfato, religiosi ed ex-baathisti, per discutere l’ascesa dell’IS. In questo modo il Regno caldeggia e favorisce il progetto di creare una Guardia Nazionale irachena a guida sunnita.

Entrambi i fattori, non di meno, si collegano all’annoso problema dei rifugiati, oggi provenienti in massima parte da Siria e Iraq e componenti potenzialmente destabilizzanti della popolazione. All’agosto scorso i rifugiati siriani registrati erano quasi 620mila e quelli iracheni 30mila, concentrati quasi tutti nei campi a nord del Paese (Zaatari, Mrajeeb al-Fhood e Azraq) [3].

La guerra di immagine – Sull’abilità e sui metodi innovativi con i quali lo Stato Islamico gestisce la propria comunicazione esterna e fa propaganda si è già scritto molto. Ciò che è ancora da evidenziare, invece, è come l’attenzione ivi riposta abbia due obiettivi paralleli: da un lato il messaggio è volto ad impressionare il pubblico e i fedeli grazie ad una comunicazione, a loro modo di vedere, “rivoluzionaria” e a destabilizzare anche i più tradizionali e conservatori tra i regimi arabo-musulmani. Dall’altro lato, il messaggio violento e punitivo vuole essere un esempio per il fedele che non si vuole attenere alla via tracciata da Maometto. Quindi da un lato si plasmano degli adepti tra i giovani arabi e non – oppure cooptandoli a causa delle difficoltà vissute da questi individui nelle realtà periferiche mediorientali –, dall’altro si destabilizza, si provoca e si sfida il nemico. Se all’inizio della sua campagna mediatica, l’IS era reputato attrattivo e capace di favorire una sorta di riscatto sociale incoraggiando parallelamente una polarizzazione delle società arabe, oggi lo stesso messaggio violento e brutale sta producendo invece l’effetto opposto, creando piuttosto unione e favorendo un consolidamento delle identità. A questo proposito, infatti, gli Stati arabi e la Giordania in particolare hanno reagito non solo militarmente, ma anche a livello simbolico e comunicativo, su un piano molto più vicino all’IS di quanto abbia fatto l’Occidente tutto. La Giordania ha raccolto la sfida mediatica, ha ingaggiato con lo Stato Islamico un’aspra guerra di immagine per rinsaldare la fiducia dei cittadini nell’operato dei vertici governativi e militari dello Stato.

Provocata dal video di al-Kassasbeh arso vivo – una pratica, questa, vietata anche dai dettami coranici –, la popolazione giordana ha reagito organizzando una grande manifestazione ad Amman in solidarietà della famiglia delle vittime. Le bandiere erano quelle nazionali e gli slogan a favore dell’esercito. L’evento ha raggiunto lo scopo, seppur probabilmente in maniera transitoria, di rinsaldare e ribadire un’identità nazionale disomogenea e in gran parte frammentaria. Ma i gesti simbolici non sono cessati al termine della manifestazione. Decine di fotografie circolano nel mondo e ritraggono gli aerei militari giordani pronti a decollare verso la vendetta nazionale, il sovrano in mimetica, l’abbraccio della regina Rania ad una bambina della famiglia del pilota. La coppia reale si è spinta oltre, lasciando la capitale e andando in visita pochi giorni dopo ad Aye, località d’origine di al-Kassesbeh. Seguendo una narrativa basata su una forte identità arabo-musulmana, la monarchia sta dunque giocando una strategia politica, comunicativa e diplomatica basata su un doppio binario, quello del destino comune di tutti i musulmani e quello laico di matrice panarabista. Re Abdallah II e Rania hanno infatti più volte ribadito come la guerra in corso contro l’IS sia una lotta di tutti gli arabi e i musulmani contro il radicalismo e il fanatismo.

I combattenti del Califfato hanno culture, lingue e origine differenti, solo l’Islam è da essi percepito come terreno comune. Colpire la loro immagine sul piano religioso si rivela dunque essenziale al fine di minarne la credibilità. Al tempo stesso, come si è in parte già accennato, la Giordania non poteva farsi sfuggire l’occasione di rinsaldare la propria identità nazionale e accanto ad essa, araba, giocando dunque su un doppio fronte retorico e narrativo che potrebbe non venir meno neppure in futuro.

Con una simile diplomazia simbolica, lo scorso 6 febbraio la Giordania ha rimesso in libertà il predicatore di origine palestinese Abu Muhammad al-Maqdisi, padre spirituale del qaedista al-Zarqawi e pubblico accusatore della monarchia saudita, tacciata di miscredenza. Non giungendo la liberazione di al-Maqdisi nel quadro di alcuno scambio di prigionieri o trattativa verosimile, è probabile che quest’ultimo possa essere sfruttato dalle autorità giordane in funzione anti-IS.

Concludendo risulta improbabile che il Paese possa aumentare il proprio coinvolgimento bellico sul campo, opzione che comporterebbe molteplici rischi per la stabilità dei territori di confine e dell’interno. Pur mantenendosi tra i più fedeli alleati statunitensi è verosimile che la cifra distintiva dell’azione giordana contro il Califfato continui ad essere la già citata attività diplomatica nazionale ed inter-tribale, nonché la guerra mediatica come mezzo di consolidamento identitario contro il radicalismo aggressivo islamista.

 * Sara Brzuszkiewicz è Dottoressa in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale (Università di Milano)

[1] DAISH è l’acronimo arabo di ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-‘Irāq wa aš-šām, ossia Stato Islamico di Iraq e al-Sham (Levante).

[2] Parte della stampa internazionale ricorda che prima dell’uccisione del pilota giordano proprio alcuni membri della tribù di appartenenza di quest’ultimo, i Bararsheh, protestavano davanti al palazzo reale chiedendo il perché del coinvolgimento giordano nelle operazioni contro l’IS.

[3] Dati UNHCR.

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