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Giovanni Papini, Chiudiamo le scuole! Tra cretini e talenti di stato
Creato il 09 novembre 2010 da SulromanzoChiudere le scuole?
“I giovani fuori dalle loro fabbriche privilegiate di cretini di stato” – Giovanni Papini, interprete indiscusso del III millennio. Eppure, l’articolo è di quasi cento anni fa: 1 giugno 1914. Interprete indiscusso, ma inconsapevole. Se non fosse che la questione salta fuori ogni anno, l’importanza di uno scritto sulla distruttività della scuola, e di tutte le istituzioni simili, sarebbe minima. Siamo dei cretini di stato, insomma: delle marionette istruite, necessariamente destinate a “rivomitare tutto quel che s’è ingozzato in quei forzati banchetti e ricominciare da capo”.
Dichiarazioni del genere, ispirate al Futurismo più distruttivo, potevano destare scandalo nel XX secolo, ma non sortiscono lo stesso effetto oggi: leggere queste due righe è stato semplice, non ci si è fermati neanche un attimo. Il concetto di scuola inutile, o meglio, utile solo per il tanto chiacchierato pezzo di carta, è talmente diffuso che una reazione del genere è prevedibile. Dai primi del 1900 ad oggi è cambiato tutto, sono poche le eccezioni: il grande libro, e non l’esperienza, distruggeva, distrugge e, secondo molti, continuerà a farlo. L’articolo di Papini, Chiudiamo le scuole!, è attuale, purtroppo. Fastidiosamente attuale. Volendo trovare una giustificazione che lo salvi da qualsiasi attacco, si potrebbe far riferimento al suo fervore futuristico, alla distruttività di questo movimento che, per fortuna, non ha prodotto grandi strascichi, almeno in letteratura. Trovare, invece, una giustificazione per tutti coloro che oggi continuano ad attaccare l’istituzione scolastica è impossibile: la loro lettura, di certo non influenzata dal lontano Futurismo, è parziale, fuorviante e, quindi, errata.
Certo, quando leggiamo che la scuola “non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato autodidattico” non possiamo che essere d’accordo. Questo approccio, però, non è esclusivo. Papini, e non solo lui, inquadra il rapporto scuola-individuo, prendendo in esame la prospettiva dell’insegnamento, o meglio, indottrinamento, e dei suoi protagonisti, e non quella di apprendimento: gli approcci del singolo all’istituzione sono tali e tanti che l’articolo risulta persino offensivo nei confronti dell’allievo. Non saranno mica tutti degli stupidi indottrinati! Non saranno mica tutti robot pronti a ingurgitare centinaia e centinaia di pagine senza un perché, e chissà in che modo! La questione è centrale, molto spesso viene sottovalutata, se non addirittura messa da parte: la conoscenza – quella che tutti, Papini in questo caso, associano alla noiosità dei grandi libri – è frutto di un percorso formativo che presuppone sfide, sacrifici, rinunce; la vera utilità del rapporto scuola-allievo non sta di certo in ciò che si apprende – si tratta, il più delle volte, di puro e sterile nozionismo, così come chiarisce Gramsci in uno scritto del 1919 – ma in ciò che si fa per apprendere, nel percorso che porta alla conoscenza.
Il mondo del lavoro presuppone sì competenza ma altresì resistenza: i veri talenti la sperimentano, giorno per giorno, nell’ambiente scolastico, confrontandosi con queste fantomatiche noiosità che, comunque, rappresentano novità. Cose nuove, e non inutili: esperienza e conoscenza viaggiano di pari passo. Ecco perché frasi come “la scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione” non dovrebbero essere più accettabili al giorno d’oggi. Eppure, sembra come se Papini stesse parlando della nostra realtà, appoggiato da una schiera infinita di sostenitori. Non deve essere così, almeno non in tutti i casi: sarà che assieme ai “cretini di stato” nascono, e crescono, “talenti di stato”?
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