Pensieri rasoterra:
L’Istat sembra certificare come la crisi abbia notevolmente dilatato la forbice tra i cosiddetti ricchi e i poveri. Ogni “crisi” infatti, colpendo trasversalmente senza alcuna eccezione, avvicina nelle “sfighe” livellando le necessità (resistono ovviamente i soliti intoccabili, ma sembrano risibili, almeno dal punto di vista numerico). Essa, come la vista di ogni terrorizzante baratro consiglia di fare un passo indietro per conservarsi sani e salvi, spinge così alla ricerca di una comune soluzione il lavoratore salariato e il datore di lavoro. Quell’uomo, tuttavia, vi reagisce con la consapevolezza del “ragioniere”: quando le cose vanno male e gli interessi personali cominciano ad essere intaccati sino ad erodersi lentamente, pare che entrambe le categorie “produttive” siano, almeno potenzialmente, bendisposte a rinunciare ad un qualcosa di sé pur di recuperare quel “benessere di silicone” che vedono progressivamente allontanarsi. Qualche millennio di evoluzione ha infatti aiutato l’umanità a comprendere quale sia l’unico valore davvero universale, “umano troppo umano” direbbe qualcuno, da perseguire a tutti i costi. Quello della stretta convenienza.
Anche oggi, quasi come un eterno ritorno dell’uguale, un disco in loop di un’umanità prevista, Confindustria e Sindacati chiedono insieme al Governo di prendere in fretta decisioni per il rilancio dell’economia. Ed in questo gioco delle parti anche il lavoratore tout court recita per bene il proprio copione, sapendo che solo un’eventuale ripresa economica gli permetterebbe di permanere nella difesa del proprio stretto interesse, continuando a fare ciò per cui crede che valga la pena di vivere: lavorare. Un po’ come nell’Alveare della Favola delle api di mandevilleiana memoria: i vizi privati, riferibili nella fattispecie alle singolarità di ogni categoria produttiva, dovrebbero generare un benessere collettivo, comune. In fondo, quando la crisi avanza e tutto travolge, non c’è tempo e spazio per concentrarsi su quegli inutili orpelli che distoglierebbero l’attenzione dalla necessità di sopravvivere. La morale, ad esempio, come ben sapeva anche il nostro olandese rasoterra, è d’impiccio al progresso e alla ricchezza: “la stessa invidia e l’amor proprio, ministri dell’industria, facevano fiorire le arti e il commercio” (chissà come può fiorire il bene comune dall’amor proprio? La solidarietà dalla concorrenza….? I Comuni italiani del duecento, lontani anni luce dall’utilitarismo scientifico calvinista, ne diedero, seppur inconsapevolmente, un indizio). Tutte le categorie produttive hanno oggi trovato un bene comune, stavolta persino riconducibile ad un anelito morale, a cui tendere e credere. La felicità, paiono dirci continuamente col loro operato, deriva esclusivamente dalla prosperità e dal benessere quantificabile. Con buona pace della fantasiosa “dialettica” marxista-hegeliana del servo-padrone, lavoratori e imprenditori sanno quindi, o credono di sapere, cosa convenga loro. Eppure, checché ne dicano quei media che ne esaltano la buona volontà e la convergenza, dietro a questa comune corrispondenza d’intenti vi è al contrario la bramosia di alcuni interessi particolari sedimentatisi nel tempo. Interessi "particulari" che solo accidentalmente collimano in una comune necessità. Quella dell’individuale povertà esistenziale umana che abbisogna di legarsi ad un totem, quello del benessere materiale nella fattispecie, per sopravvivere, dandosi così anche un senso e un’importanza altrimenti impossibili. Se il freddo calcolo singolare, e non invece lo spirito collettivo tanto sventolato, è ciò che ne ha mosso le intenzioni, dovremmo forse ammettere che il sistema feudale, benché accidentalmente, era di gran lunga più attento alle cose del “sociale” di tutta quella sfera che forse oggi chiamiamo ancora “comunitaria”, rispetto al progredito e democratico mondo economico-mercantile globale. Come narra infatti Marc Bloch nel suo Lavoro e tecnica nel Medioevo, il signore feudale non aveva alcun interesse a cacciare dalle proprie terre i servi della gleba, perché sostituirli avrebbe comportato già una considerevole perdita: “l’imprenditore che oggi, si veda privato, in seguito a morte o a malattia, di un operaio, troverà forse qualche difficoltà a sostituirlo, se il mercato della manodopera è sfavorevole; se però arriva a sostituirlo, non avrà subito perdita alcuna, in quanto il salario, chiunque sia l’uomo, rimane eguale a se stesso. Al contrario il padrone, il cui schiavo moriva, si ammalava o semplicemente invecchiava, doveva comprarne un altro; egli perdeva, al netto, la somma con la quale aveva pagato il primo”. Laddove il feudatario e il suo servo casato amavano la gleba, il lavoratore e il nostro imprenditore amano solo il globo…