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‘Good fences make good neighbours’ (About 350 words)

Creato il 08 marzo 2012 da Unarosaverde

Negli esercizi di preparazione all’esame di inglese di cui parlavo qui, sono inclusi, naturalmente, anche i “temini”: lettere di protesta o agli amici, saggi, dissertazioni, testi descrittivi e narrativi. Insomma, una pletora di modelli di comunicazione scritta che devo imparare a produrre in poco tempo, senza vocabolario, in lunghezza assegnata e, possibilmente, con penuria di errori.

Scrivere mi piace ma, mentre ai tempi di scuola il tema libero mi svuotava di colpo i pensieri regalandomi l’inquietudine della pagina bianca, adesso mi riesce difficile rispettare una traccia assegnata. In queste settimane ho perciò schivato senza rimorsi alcune consegne, quali, per esempio, una dissertazione sull’efficacia del sistema carcerario e la descrizione di un giorno nella vita di un poliziotto o di un carcerato. Decisamente troppo sforzo di fantasia.

La scusa di non avere niente da dire riguardo ai rapporti di vicinato diventa molto difficile, invece, da sostenere. Per cui eccomi cui, a chiedermi come mettere insieme 350 parole in un inglese passabile, sulle mie esperienze di siepi e muretti che non contemplano né aneddoti di annose guerriglie né storie di grandi passioni.

Ho quasi sempre vissuto nella stessa casa, così come la maggior parte dei miei vicini, a destra, sinistra e di fronte. Siamo un gruppo di stanziali. Alla porta accanto, quella dei nonni, vivono adesso le zie e non ci sono inferriate a delimitare i confini. L’aspetto delle case che si affacciano sulla corta strada è stato modificato, di quando in quando, senza far perdere l’originale fisionomia al quartiere. Nelle fotografie di quarant’anni fa quasi ogni oggetto è ancora riconoscibile, tra le mani successive di pittura fresca, l’apparizione di un cancello automatico, di una piscina e di tre villette basse e discrete al posto dei tronchi in attesa sul terreno della vecchia segheria.

Ogni casa è delimitata: siepi verdi o  basse cancellate corrono intorno ai giardini a segnare l’inizio e la fine. Solo i gatti e i ladri le ignorano; gli inquilini preferiscono preservare la pace e si avvicinano solo per l’annuale potatura. Ci si conosce da moltissimo tempo e, in caso di bisogno, siamo tutti più che disponibili a dare una mano ma, nello stesso tempo, le delimitazioni non sono solo fisiche ma anche emotive: definiscono territori che è meglio rimangano privati.

Da piccoli giocavamo insieme: se ci davano il permesso di uscire dal cancello, ci radunavamo in uno dei giardini o, più di frequente, alla fine della via, in un piccolo e poco attraente parco che era più che sufficiente alle nostre biciclette, ai giochi con palla ed elastico e ad un’illimitata riserva di fantasia. Se il cancello rimaneva chiuso, usavamo le siepi come reti e giocavamo a pallavolo tra un giardino e l’altro o, più semplicemente, chiacchieravamo per ore.

Ogni tanto eravamo presi dal sacro fuoco della ribellione e tramavamo per la libertà: con un sassolino, senza farci sentire, picchiavamo piccoli colpi sul ferro nero, nella speranza di aprirci un varco tra un’asta e l’altra delle cancellate e immaginavamo cosa avremmo fatto, una volta riusciti ad aggirare l’ostacolo. C’è ancora un incavo arrugginito, nel punto in cui si erano concentrati gli sforzi, a ricordare il nostro ingenuo tentativo.

Siamo cresciuti: nelle case sono rimasti i genitori anziani, a volte tornano alcuni di noi, dispersi lontano dalla valle, altri non torneranno più; si sono aggiunte anche le nuove famiglie di chi, da ragazzino, giocava in fondo alla strada e nuovi bambini piccoli hanno preso il nostro posto vicino alle siepi. I giardini, ai loro occhi, sono ancora territori immensi.

Le cancellate sono rimaste in piedi, presupposto fisico indispensabile per evitare irruzioni a chi non possiede la capacità di distinguere i confini virtuali, fatti di materiali soggettivi e mutevoli.

Ecco, vedete: non c’è molto altro da aggiungere: mi sa che il giorno dell’esame è meglio che inventi.


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