Mentre in Italia hanno deciso che sedersi attorno ad un tavolo per parlare non è più eresia, in Europa faranno gruppo comune assieme a Farage, ex esponenti del Front National e qualche noenazista svedese, qualche lituano, un lettone, un ceco. Non manca più nessuno.
L'unica spiegazione possibile è che anche Grillo ha deciso di sposare la strategia del movimento.
L'ha spiegato ieri Gilioli parlando di Renzi e del suo "dinamismo conservatore": l'arte del promettere, del dire, dell'annunciare. Perché l'importante è dare l'impressione di movimento. Perché chi si ferma è perduto e, nelle guerre di posizione, si rischia il logoramento.
E dunque bisogna muoversi. Sempre più in fretta.
Annunciando le riforme del lavoro, del Senato, delle province (che ci sono ma non li eleggi tu), della pubblica amministrazione, della giustizia civile, del pagamento delle tasse. Non tutti gli annunci si sono concretizzati in atti concreti: il pagamento dei debiti non è stato completo, la ristrutturazione delle scuole deve ancora partire, le norme sull'anticorruzione sono ancora rimandate.
Ma non preoccupatevi: gli accordi per riformare gli assetti istituzionali sono ancora validi, tra Renzi e Berlusconi. Un Senato di nominati, che ha voce su CSM, sulle leggi, sull'elezione del presidente della Repubblica. Magari in vista di un nuovo assetto presidenziale.
“Ora tutti mangino questa minestra o si salta dalla finestra”: minestra da mangiare in fretta, però. Prima che la gente si accorga del pasticcio.
Salvatore Cannavò sul Fatto Quotidiano parla di tradizione orale renziana:
La tradizione orale di Matteo Renzi si riassume nella politica delle slide. Nella convinzione che il tempo, per chiunque governi, sia un nemico spietato, il premier fin dal suo insediamento ha puntato sempre sull’impatto degli annunci più che sulle norme esatte. Queste, del resto, devono passare per mille mediazioni parlamentari, hanno bisogno della materia scarsa, il tempo, e non danno gioia. Meglio alludere, descrivere, tramandare ai posteri con la forza della parola. Certo, non tutto è “fuffa”. Proprio ieri, con il voto di fiducia della Camera, il decreto-immagine del governo Renzi, quello degli 80 euro, è stato approvato.
I DEBITI NON SI PAGANO
Ma, sempre ieri, l’Italia è stata colpita da una procedura di infrazione europea sui mancati pagamenti alle aziende da parte della Pubblica amministrazione. Una prova di come molti degli annunci fatti finora siano stati pensati più per riempire Twitter e schermi tv di disegni e grafici colorati (ricordate il pesciolino rosso?) che per “cambiare verso” all’Italia.
Con sprezzo del pericolo, lo scorso 7 marzo, a pochi giorni dall’insediamento del governo, Renzi dichiarava che “entro luglio paghiamo 68 miliardi” con lo “sblocco totale e immediato” dei crediti incagliati. Ieri, invece, la Ue ha sanzionato l’Italia proprio per il ritardo nei pagamenti.
Ma a smentire il premier basta il sito del ministero dell’Economia su cui è pubblicato l’aggiornamento dei pagamenti erogati: 23,5 miliardi. Si tratta, poi, di risorse stanziate dai governi Monti e Letta di cui, oralmente, Renzi si è abilmente appropriato.
IL LAVORO CHE VERRÀ
La tradizione orale la si rintraccia anche nel primo “manifesto” politico dell’ex sindaco di Firenze, quello del Jobs Act. Renzi può, certamente, rivendicare la conversione in legge in Parlamento del decreto-Poletti che deriva da quel provvedimento. Ma quel progetto, però, è stato spacchettato approvando di corsa la maggior flessibilità e relegando a una legge-delega il simbolo del Jobs Act, il contratto unico a tutele crescenti. La legge-delega, che a sua volta va tramutata in tanti decreti attuativi, non è stata ancora nemmeno presentata. I più ottimisti dicono che qualcosa si vedrà nel 2015. Per ora, accontentiamoci delle promesse.
Anche la riforma della Pubblica amministrazione, fino a ieri, era affidata alle parole. Anzi, ai “44 punti”, come i gatti, che il governo aveva redatto dopo l’immancabile “campagna di ascolto” (leggi, ricezione di 40 mila mail dai cittadini). Renzi è anche riuscito a convocare una conferenza stampa, la sera del 13 giugno, per illustrare la riforma senza che il testo fosse pronto. Ma anche in questo caso è andato in scena il “trucco” dello spacchettamento. Subito, nel decreto, le misure più appariscenti – dimezzamento dei permessi sindacali, maggiore flessibilità per annunciare 15 mila posti ai giovani, etc. – mentre le misure “oggetto della consultazione pubblica” sono finite in un disegno di legge-delega da realizzare “nei dodici mesi successivi all’approvazione della legge”. Probabilmente a legislatura finita.
SCUOLE CERCANSI
Altro tema, altro giro di giostra: la scuola. Il premier aveva annunciato 3,5 miliardi di risorse per 10 mila scuole d’Italia con “2 milioni di studenti più sicuri”. Così, pochi giorni dopo essersi insediato a Palazzo Chigi, ha scritto a tutti i sindaci per farsi inviare lo stato della situazione. Solo la settimana scorsa, però, Renzi “ha informato il Consiglio dei ministri” di aver firmato un Dpcm che individua i Comuni esclusi dal Patto di stabilità interno, per gli anni 2014 e 2015, per le spese destinate a edilizia scolastica.
I fondi utilizzati al momento, quindi, sono degli enti locali. Ai quali il governo aggiunge 300 milioni ma solo “per finanziare interventi agevolati”. Poi c’è il progetto “scuole belle” con 450 milioni destinati a piccola manutenzione in 17.959 plessi scolastici. Altri 400 milioni, infine, sono destinati a “scuole sicure”. Con quali soldi? I fondi, secondo il sottosegretario Reggi, provengono dalla riprogrammazione del Fondo coesione 2007-2013 con interventi tra il 2014 e il 2020 compresi tra i 2,4 e 4 miliardi di euro. Sembra il gioco delle tre carte e onestamente è difficile capire se, come e quando i soldi arriveranno alle scuole.