commento ad un’opera teatrale di Enzo Caputo
di Anna Laura Bobbi
(A cura di Gloria Gaetano)
Aprire la mente al sogno. O all’incubo. O alla possibilità.
Inerpicarsi lungo tutte le strade che l’umanità – quel condensato di storia, umore, amore/disamore, presenza/assenza, risacca/ bonaccia, fuga,/ritorno – è capace di concepire nel corso delle vite, delle storie e dei drammi, nel pensiero, negli atti, nei rumori, nei suoni, nei silenzi.
Parola-mondo, linguaggio disarticolato, emozione alle stelle che contamina e ammanta. Ipnosi di platea e palco che permette di uscire da se stessi come prodotti di un’epoca -compratori e merci- e reinventarsi come essenze.
La drammaturgia di Enzo Caputo mette in circolo le suggestioni mentre sconcretizza l’azione scenica e consente di interloquire direttamente – in una logica cara a Carmelo Bene – da un interno, quello dell’attore in scena , a un altro interno, quello dello spettatore in sala.
Un decennio e mezzo di esperienza continua nella ricerca teatrale ha consentito al regista di approdare al laboratorio come esigenza essenziale del teatro, di un teatro “dove non c’è regista che impone la propria idea, dove c’è l’attore che non ha una propria idea e nessuna personalità, che insieme cercano il teatro che già è, e lo subiscono irrimediabilmente senza mai uscire illesi da questo lavoro di laboratorio, nessuna delle due entità e, di riflesso, nessun pubblico” (E. Caputo).
L’unica forma di teatro, in effetti , adatta a consentire alla conoscenza di incidere per essere efficace, per rimanerti addosso, per “complicarti la vita” ribadirebbe Eduardo. Ermeneutica, interpretazione che non lascia tracce, per dirla con De Bernardinis, in un lavoro mai definitivo e mai finito in cui l’attore non fa teatro, è teatro, non produce, non vende, comprende e mette sullo stesso piano tutte le forme di linguaggio, fondendo gesto, movimento, suono e parola.
Una declinazione contemporanea del Manifesto del teatro della crudeltà di Antonin Artaud, in cui le parole sono usate in senso incantatorio, magico, non soltanto per il loro significato, ma anche per la forma e per le loro emanazioni sensibili.
“Le vene tagliate la pena la vela le trame le sartie” e “ il vascello si perde il cuore si perde parte un soffione di vento un soffio io vivo di folate come il vento folate improvvise…” sono alcuni passaggi della tessitura drammaturgica di “Bestiolina”, in cui parole incatenate da legami semantici si spezzano con parole-carezza o, al contrario, con parole- urlo che ti piombano dentro e ti catapultano in un dramma che non è dichiarato né declamato, vieppiù si sperimenta.
Così come si saggia il dolore nelle poesie di Artaud “ … Vetri di suono dove girano gli astri/lastre dove cuociono i cervelli/il cielo brulicante di vergogne/divora la nudità degli astri (Vetri di suono, A. Artaud).
E’ questo il retroterra culturale della scrittura scenica di Caputo che si unisce alla capacità di scarnificare la sintassi per rimpolpare significati e scenari di anima.
Poesia, parole in rotta verso l’altro in un sistema complesso di connessioni semantiche e fonologiche, sono quelle che il regista/ scrittore mette in campo nella sua produzione.
E da qui nasce “Bestiolina” il dramma di una bambina che decide di nascere senza cuore.
Il protagonista di “Diario di rondine” di Amélie Nothomb si strappa il cuore in un suicidio sensoriale per iniziare una nuova esistenza , Bestiolina – per anticipare forse l’urgenza di anestetizzare il dolore a cui sarebbe approdata?- , decise quando ancora era un feto di nascere senza cuore – buttatelo via- e, dodicenne, annoda le lacrime dopo aver raccolto macchie, brume e rugiada e averle chiuse una per una nei piccoli cassetti dentro di sé , cassetti ermeticamente sudati da aprire uno alla volta – che non faccia male il nero – per guardare oltre e chiamare a raduno gli angeli del cielo a colorare il giorno.
E dodicenne, Bestiolina sogna l’amore, crede all’amore, quello che ti fa volare a raggiungere orizzonti infiniti attraverso mari sterminati. E dodicenne Bestiolina conosce l’amore- eruzione vulcanica, pelle sventrata che possiede la devastazione e rende pietra il suo corpo lasciando odore d’inferno. E allora la bambina profanata, quella che voleva diventare profetessa dell’amore, trascina via la sua anima, l’appende a un filo, attacca il filo alla luna e sospinge la sua essenza lontano dal corpo ferito.
Una carrozza, otto cavalli bianchi, un castello sognava Bestiolina, bambina mossa dall’urgenza lieve di giocare, giocare e sognare, giocare e giocare e sognare ancora un po’. A tredici anni non gioca, non sogna e non sogna più di giocare Bestiolina, ha affidato il suo volo al vento e l’anima ha sospinto via verso la luna.
Innumerevoli donne, bambine, anime rappresenta questo dramma. Tutte quelle che la società e la cultura non sono ancora in grado di tutelare e risarcire. Ma anche tutte quelle la cui identità è mistificata dal sogno dell’apparenza, della gioventù intramontabile, del corpo-feticcio da plasmare e asservire a disegni di potere. Perché Bestiolina è l’idea della donna imbrigliata, guscio svuotato di anima, pensieri, sogni, progetti. Idea che torna attuale, a cicli, quando s’indebolisce il sistema immunitario sociale. Il teatro di Enzo Caputo e dei registi impegnati sul fronte della ricerca teatrale può essere anticorpo perché costringe a immedesimarsi, induce un pensiero identificativo su temi “oscurati” e velati dalla comunicazione ufficiale. E’ un teatro che svela e rivela. Una frontiera da riconquistare per tentare di consegnare al futuro utopie, scenari di significato capaci di opporsi al pensiero vacuo che aleggia sulla superficie della realtà senza soffermarsi a costruire orizzonti di senso. La frontiera inascoltata dei poeti, quei folli capaci di cantare:
“Una donna s’alza e canta
La segue il vento e l’incanta
E sulla terra la stende
E il sogno vero la prende.
Questa terra è nuda
Questa donna è druda
Questo vento è forte
Questo sogno è morte”
(Canto beduino, G. Ungaretti)