Sabato, come ho già scritto, a Radio Onde Furlane parleremo di lavoro e di montagna, cercando di capire le alternative alla dipendenza dal turismo e dalla grande industria. Non posso prevedere cosa diranno i nostri ospiti, ma si parlerà di mestieri antichi, artigianali, piccoli e locali, e anche di ricerca e nuove tecnologie. La vita in montagna è sempre stata dura; forse in futuro lo sarà un po’ meno, non perché apriranno grandi fabbriche che daranno lavoro, o perché masse di turisti porteranno i loro soldi, ma perché ci sono nuove conoscenze e soprattutto perché si troverà il modo di fare bene e di far valere quello che si ha, in un mondo diverso che dà un diverso valore alle cose, all’ambiente, alla bellezza, e al lavoro delle persone. Così almeno io spero.
Questa era la premessa a un post che va molto oltre, che parla di una società che non c’è ancora, ma che io auspico.
Mi sono stupita, ultimamente, su una questione importante come l’articolo 18, di non riuscire a ritrovarmi nelle posizioni della parte verso cui solitamente tendo, la cosiddetta sinistra (non il pd: la sinistra). Forse che non mi impietosivo all’idea di una famiglia ridotta sul lastrico dalla perdita di un lavoro? O di un disoccupato di cinquant’anni, troppo giovane per andare in pensione, liquidato senza tanti complimenti e che nessuno vuole più assumere? No, le difficoltà le capisco e mi preoccupano. Eppure non riesco a condividere, al di là dell’allarme per la contingenza drammatica, l’analisi dei partiti di sinistra, dei grandi sindacati e addirittura dei movimenti. D’altronde, mi accorgo con sorpresa di uscire lentamente dalla sinistra tradizionale e di scivolare sempre più nell’anarchia, per la fiducia che ripongo nelle capacità e nell’intelligenza di ognuno, nella responsabilità individuale, nel ruolo della solidarietà; per l’odio verso le imposizioni evitabili. Non mi ci abbandono del tutto, però. Ma torno al tema del lavoro.
Non riesco a non pensare che, come una persona sia libera di assumere, debba essere anche libera di licenziare, anche senza un motivo che tiri in ballo questioni di vita o di morte. Non si può forse divorziare, anche se si hanno motivazioni discutibili? Non si può forse cambiare idea sull’acquisto di una casa, pagando una penale? Possiamo disapprovare chi fa queste cose, costringerli a rispettare i termini del contratto che magari prevede una sanzione economica per chi lo rompe, guardarci bene dal fidarci di nuovo, ma non imporre per legge un patto che non si vuole più. Perché nel lavoro dovrebbe essere diverso? Mi si potrebbe rispondere: perché bisogna tutelare il lavoratore, che è la parte debole. Questo è allora il problema, la debolezza del lavoratore, e non credo si possa risolvere con i tribunali, semmai creando una società sana.
Mi si dirà che anch’io tratto il lavoro come una merce, slogan che va molto ultimamente. Io me ne stupisco.
A destra e a sinistra, la parola lavoro viene abitualmente utilizzata in espressioni quali ‘creare lavoro’, ‘perdere il lavoro’, ‘rubare lavoro’, e così via, come se il lavoro non fosse una capacità o una volontà, ma una cosa che si dà e si toglie. Non mi sembra che Monti stia facendo niente di così rivoluzionario per rendere il lavoro una merce, né che i sindacati possano impedirglielo. Il lavoro è già una merce. In una società iperspecializzata, consumista e monetarizzata, in cui non esistono quasi più gratuità, autoproduzione e baratto, e in cui senza denaro non si fa nulla, il lavoro è una merce per forza, e da un pezzo. Niente di nuovo su questo fronte.
Perdere il lavoro in un’economia in cui il denaro compra tutto, e la sua mancanza nega l’accesso a quasi ogni cosa, è necessariamente una tragedia. Io invece penso a un’economia alternativa, che tra i suoi vari vantaggi ha anche quello di togliere al licenziamento la sua natura di condanna a morte.
Il lavoro, per me, non è la generosa offerta di un ‘padrone’, che lo crea e te lo dà, né un diritto astratto. Il lavoro è quello che si fa, che si deve fare a meno che il nostro corpo o la nostra mente siano inutilizzabili, per provvedere a sè stessi o alle persone di cui ci si sente responsabili. Non per forza deve passare interamente per il salario. Se io autoproduco, se io coltivo la terra, mi sistemo la casa, se io scambio favori con favori, lavoro senza ricevere denaro e senza essere nemmeno assunta. Riscoprendo queste attività, si toglie al datore di lavoro il suo potere totale, e il licenziamento non è la fine del mondo. Se il licenziamento non è così grave, possiamo distogliere energie e risorse (i tribunali!) dal cercare di impedirlo, e utilizzare queste energie e risorse per la creazione di una società migliore in cui nessuno è soggetto a ricatto.
Certo, un po’ di denaro serve. Allora io entro, alla pari, in un patto con qualcuno, che mi dà del denaro in cambio di servizio. Perché io devo costringere quella persona a farlo quando non vuole più farlo? Per lealtà e fedeltà, direbbero quelli che sentono di avere un rapporto stretto con i propri dipendenti. Buon per loro. E chi non si sente così? Se io ho aperto una piccola attività, o faccio parte di una cooperativa, non posso essere liquidato tanto facilmente perché ci ho messo del mio, ho intrapreso e rischiato, sono tra quelli che decidono. Se io invece sono stato assunto per fare qualcosa, e ora non sono più voluto, dovrei poter disporre di alternative. Non posso pensare che il posto in cui ero prima sia l’unica alternativa a morire di fame! Non posso obbligare chi non mi vuole a tenermi! Perché i sindacati ci trasmettono questo messaggio? È orribile! È limitante e direi persino indignitoso. Persino nel caso di discriminazione, mi azzardo a dire. Lo stato decide di fornire dei servizi a tutti, come la sanità, l’istruzione o i trasporti (o la tutela delle norme di sicurezza sul lavoro). Se questi sono per tutti, allora nessuno deve essere discriminato. Alcuni richiedono una partecipazione economica, altri sono gratuiti, ma nessuno può dire: tu sei straniero / omosessuale / troppo radicale, a questi servizi non puoi accedere. Secondo me però il lavoro esiste al di fuori di queste garanzie pubbliche, è un rapporto tra individui liberi, o società composte da individui liberi. Io sono talmente idealista da dire: mi discriminano? Troverò qualcos’altro. Perché devo farmi riassumere e continuare ad arricchire un razzista o un omofobo, o qualcuno che reprime l’attività sindacale?* Ma un po’ di dignità! Boicottiamoli! Penserete che sono pazza o troppo individualista. Però io ci credo: non riesco a stare dove non sono voluta, e penso che ci sia sempre un’altra possibilità. Parlo anche per esperienza personale.
Ora veniamo al caso della persona la cui vita finisce quando è licenziata**. Perchè? Forse è troppo specializzata? Allora deve riscoprire altre attività. Forse non c’è nessuno a cui servono le sue competenze? Perché non le valorizza lei stessa? Forse, per quanto lei cerchi, non c’è davvero nulla. Allora la collettività, in una società sana, deve farsi carico di questa persona – e quello sì è un diritto di tutti, in cui non possono esistere discriminazioni. La cassa integrazione attuale, invece, discrimina eccome.
Possiamo creare un sussidio di disoccupazione vero***. Secondo me dovremmo farlo. Così sì che il lavoratore ha potere, il potere più grande: non accettare un lavoro! Paradossalmente, ora l’indennità (un ginepraio) ce l’ha solo chi ha lavorato per un certo periodo di tempo, continuativo, e recente. La riforma proposta non va a modificare questo fatto: i requisiti restano “2 anni di anzianità assicurativa ed almeno 52 settimane nell’ultimo biennio”. Quella con requisiti ridotti, modificando l’esistente, chiede “almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi”. E come spiega La Repubblica, dall’Aspi “vengono esclusi i cocopro, i contratti a progetto e tutte le forme di lavoro falsamente indipendente, ma in realtà subordinato.” A essere precari, disoccupati o vittime di contratti strani, insomma, si ha il danno e la beffa. Non trovi lavoro da tanto tempo, oppure lavori troppo poco e saltuariamente, e quindi non ti tocca nemmeno il sussidio. A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Pazzesco.
Perché non pensare a un salario minimo per chi non lavora, basso perché non ce ne si approfitti, ma sufficiente a non far morire di fame?
Se lavori, la responsabilità di mettere da parte soldi è tua, inoltre quando vieni licenziato percepisci liquidazione e tutto quello di cui non hai goduto. Mettiamo anche, come vuole il governo, un indennizzo in tot mensilità. A questo punto, hai comunque più di chi non lavora da tanto tempo. Potresti ricevere un sussidio di disoccupazione standard (perché infatti proporzionarlo al reddito di prima? per favorire chi già prima guadagnava di più!), basso ma a tempo indeterminato. Ovviamente ci vogliono controlli che facciano emergere il nero, lotta all’evasione e una redistribuzione seria per reperire le risorse. I controlli sono una cosa fondamentale. Si toglie la burocrazia, si fanno regole più semplici e ragionevoli, ma non ci si potrà mai esimere dal controllare che vengano applicate. Altrimenti crolla tutto.
Se percepisci un salario come disoccupato, ti conviene comunque cercare un altro lavoro, per guadagnare di più e per fare qualcosa. Ma se non lo trovi, non muori di fame, inoltre puoi sperimentare con l’autoproduzione: coltivare piante, fare a maglia, cucinare in casa… puoi anche restituire alla collettività quello che ti dà, facendo il volontario. Io sono una precaria e non mi dispiace, penso che il precariato sia additato troppo come colpevole di tutti i mali, invece ci si può convivere benissimo se ci sono adeguate tutele. Io non penso che il lavoro fisso sia per tutti e sicuramente non voglio mai, nella vita, lavorare otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana, tutto l’anno. Non credo nemmeno di riuscire a fare la stessa cosa per tutta la vita. Spero di non essere costretta a farlo, e di continuare a contribuire alla società come faccio ora.
Ora la disoccupazione, come per molti anche la pensione. è una specie di morte civile. Non abbiamo più nulla al di fuori del lavoro. Non mi stupisco che questo governo continui a vedere le cose in questo modo, considerato le idee di cui sono figli i suoi ministri. Ma mi rattrista che a sinistra non compaiano concezioni nuove.
Mi si dirà: tu stai dietro a un computer a fare discorsi di cose di cui non sai nulla: facile per te. Forse.
Ma io ho fatto lavori di tutti i tipi, eppure non ho mai lavorato abbastanza a lungo per avere diritto a una disoccupazione.
Io vado a piedi, rattoppo i vestiti, mangio a casa per non spendere, so risparmiare al limite dell’incredibile. I privilegi che ho avuto, come una casa gratis, li ho condivisi quanto potevo senza chiedere niente.
Io ho poco potere contrattuale, ma quel poco che ho l’ho acquistato grazie alle mie capacità, e ho anche imparato a dire di no.
Io (sta iniziando a diventare fastidioso, scusate) faccio gratis o quasi le cose migliori che faccio, il volontariato, l’attivismo, il giornalismo, la scrittura. In vita mia sono stata pagata solo per i compiti meno nobili cui ho assolto.
Infine, io ho perso possibilità di lavoro (ma non sono stata licenziata: ai precari basta non rinnovare il contratto) per come ero, magari perché rispondevo, non lavoravo più di quanto stabilito, non mi facevo schiavizzare. Non credo che ricorrerei mai a un tribunale per farmi assumere da qualcuno che non mi vuole e con cui nemmeno io sto bene. È un loro diritto liberarsi di me, è un mio diritto liberarmi di loro. Quando lavori bene e sei compatibile, è stupido chi ti manda via. Se sei sostituibile, come un operaio in una grande fabbrica, ti dirò che questo è il rischio della grande industria. Bisogna tornare ad altri mestieri: l’industria serve in alcuni casi, ma lì dentro difficilmente sei un individuo. Ho molta stima per la Fiom, ma il mondo a cui si rifanno non è il mondo che vedo nel futuro. Il mondo del futuro non è quello della grande industria, delle grandi opere: quel mondo sta finendo. Io voglio demolire tutto questo, demolire anche la grande finanza, le grandi istituzioni lontane, i grandi patrimoni, tutto ciò che è grande e schiaccia le persone e toglie loro, se non per lunghe e confuse deleghe, la capacità di decidere per sè e per la propria comunità.
Quindi le mie idee me le sono fatte sulla base di un’esperienza dura e frustrante, in cui sono stata coerente e ogni tanto l’ho pagato. Certo, con le spalle coperte, se succedeva qualcosa non morivo di fame: ma preferirei che lo stato togliesse qualcosa al lauto stipendio dei miei genitori per coprire le spalle di tutti.
Questi insomma sono i miei ragionamenti. Il lavoro non può essere un concetto così univoco e totale, l’indennità di disoccupazione non può essere così difficile da ottenere, l’economia non può esistere solo dove c’è moneta. Il licenziamento deve essere permesso, perché non deve avere potere. Il potere deve averlo chi lavora, chi può andarsene e cambiare, dire sempre no a un ricatto, essere protetto se lo fa.
Chi ha voglia mi dica dove sbaglio.
* Diversa e più complessa è la questione in un ente pubblico che abbia il monopolio o quasi di un settore – per esempio il licenziamento discriminatorio di un medico o un insegnante. Chi vuole lavorare nel pubblico potrebbe trovarsi in una posizione più difficile. Potrebbe cercare lavoro in un altro ospedale o un’altra scuola? Dovrebbe la politica intervenire mettendo sotto pressione i dirigenti? Devo analizzare bene un ipotetico caso simile.
** Se è stata licenziata perché è madre, dirò che io sono per la paternità obbligatoria. Un’imposizione che accetto in nome dell’obbiettivo più alto della parità di diritti tra i sessi. Quando un uomo dovrà assentarsi dal lavoro per forza, perché gli è nato un figlio, allora assumere un uomo diventerà ancora più simile all’assumere una donna.
*** Leggo che Marrazzo, in Lazio, ci aveva provato e a qualcuno questo reddito era stato promesso, anche se non ho capito se è arrivato o no (che sorpresa). Poi la destra l’ha tolto, altro non so. Ho sentito molto più parlare dei suoi trans che di questo…