“Ognuno di noi ha una bandiera nel cuore seguita con buona fede e onore, ma tutti dobbiamo ricordare che vi è una bandiera comune consegnataci dal voto dei sardi nella quale c’è scritto Sardegna“. Queste parole sono state pronunciate il 28 maggio 1949 dal primo presidente del Consiglio regionale della Sardegna, il sardista Anselmo Contu. In quel periodo lo Statuto sardo, simbolo di un’autonomia conquistata con grande fatica grazie al sacrificio dei tanti sardi morti nella seconda guerra mondiale, era stato appena approvato dalla Assemblea Costituente. Già da allora il risultato ottenuto dalla contrattazione con lo Stato era molto al di sotto delle attese. La politica isolana continuava ad avere una sorta di complesso di inferiorità, frutto di una colonizzazione durata centinaia di anni. Ma, al di là di questa atavica sottomissione allo straniero, in quasi sessantacinque anni da quella prima assemblea regionale la politica sarda è mai riuscita a sventolare a Roma il vessillo della autonomia sarda?
Dopo quel 28 maggio 49 pieno di auspici, quando il Consiglio regionale era ospitato temporaneamente nel palazzo comunale di Cagliari (poi l’assemblea è stata ospite per circa quarant’anni del palazzo Regio di Castello e ha dovuto aspettare fino al 13 dicembre 1988 prima di avere la sede definitiva in via Roma dove ora sventolano i Quattro mori) si sono susseguiti tanti altri presidenti del Consiglio e tanti altri presidenti della Regione. Alcuni ottimi, alcuni meno. Tanti politici hanno occupato i banchi della massima assise regionale e hanno rappresentato i quattro mori nel Governo nazionale e in Parlamento. Ma con quali risultati? Forse il più tangibile, almeno dal punto di vista mediatico, è stata la lunga vertenza che ha portato nel 2006 al riconoscimento delle entrate fiscali dovute alla Sardegna, la cosiddetta vertenza entrate. Comunemente si ascrive quella vittoria all’allora presidente della Regione Renato Soru che riuscì a portare a Roma davanti a Palazzo Chigi tutta l’Isola, anche gli esponenti della parte avversa. Da allora lo Stato, in ottemperanza allo Statuto, versa alla Regione una quota delle entrate fiscali riscosse nell’Isola. Anche gli arretrati. E anche l’Iva. Rovescio della medaglia di quella vittoria è il fatto che la Regione sarda si è dovuta accollare totalmente gli oneri della sanità regionale, della continuità territoriale e dei trasporti locali. Che paga con quelle entrate fiscali. Ora si sta verificando la situazione opposta, con l’attuale presidente della Regione Ugo Cappellacci che invano sta cercando di coinvolgere tutta la politica sarda per la conquista della zona franca (altro caposaldo delle battaglie del vecchio partito sardista per il quale si battè a metà degli anni Novanta il presidente Federico Palomba, poi stranamente dimenticata per tanti anni prima d’ora). Proprio sulla zona franca, sulla sua realizzazione e sulla sua convenienza o meno si giocherà la campagna elettorale in vista delle prossime elezioni.
Quattro mori con la benda sugli occhi
La storia ci ha insegnato che il popolo sardo ha pagato spesso con il sangue i suoi tentativi di ribellarsi alle ingiustizie del potere. Ma anche che spesso le classi più nobili e agiate dell’isola si sono schierate con i dominatori di turno per schiacciare la povera gente. L’episodio della cacciata dei piemontesi del 1794, culmine del desiderio di autonomia e autogoverno dei sardi, è stato talmente importante che nel 93 ha portato all’istituzione di Sa Die de Sa Sardigna. Eppure anche quell’anelito di autonomia si era presto riassorbito: dopo soli cinquant’anni la Sardegna si trovò a rinunciare al suo parlamento (gli stamenti) e agli organi istituzionali dei quattro mori per chiedere a gran voce la cosiddetta “unione perfetta” con il Piemonte. Per cosa poi? Per una unione voluta soprattutto dalle classi più agiate, dagli intellettuali e dai politici emergenti, che avrebbero avuto un po’ di potere nel parlamento nazionale. Ma non certo dalla popolazione che negli anni siccessivi avrebbe continuato a fare la fame e subire angherie e prepotenze. Non è un caso che prima del 3 marzo 1999, data in cui è stata adottata ufficialmente la bandiera sarda, i quattro mori rappresentati nello stendardo dell’isola avevano gli occhi mestamente bendati.Non si può dire che in tutti questi anni la situazione sia migliorata. Quell’autonomia riconquistata, si fa per dire, con l’approvazione dello Statuto non è mai stata resa effettiva, tanto che le successive riforme dell’ordinamento statale – attribuendo nuove competenze e facoltà alle regioni ordinarie – hanno reso quasi obsoleta la “specialità” delle regioni a statuto speciale. Anche tutti i soldi piovuti in Sardegna con il Piano straordinario di Rinascita, un tributo alla Sardegna per il sangue versato dai combattenti sardi della Brigata Sassari caduti in guerra, è stato sprecato. Vanificato da scelte sbagliate, dalla costruzione di grandi industrie che prima hanno portato via dalle campagne tante persone e poi con la loro chiusura le hanno ributtate in mezzo alla strada. Così come è stata sprecata l’enorme massa di denaro erogata in questi anni dalla comunità europea: fiumi di risorse disperse in piccoli progetti insignificanti che hanno creato pochissimi veri posti di lavoro e viceversa hanno arricchito molte tasche. Oppure sono stati addirittura restituiti per la mancanza di progetti validi con cui spenderli.
La verità è che in questi anni poche personalità politiche sono emerse in Sardegna. La nostra classe dirigente regionale, salvo qualche eccezione, si è dimostrata incapace e priva di progettualità. Sull’interesse per la comunità è quasi sempre prevalso quello per il proprio tornaconto personale, sul bene comune è quasi sempre prevalso il privilegio per se stessi e per i propri amici. E anche se per la verità negli ultimi anni, forse per la paura che la gente imbracciasse i forconi, si è cercato di eliminare i privilegi più odiosi, la mentalità comune è purtroppo rimasta la stessa. Sull’interesse dei sardi hanno quasi sempre prevalso quelli della propria bottega e a Roma, quando c’era da difendere gli interessi della nostra Sardegna, hanno prevalso i diktat di partito.
Il risultato di una politica eternamente in campagna elettorale, che litiga e strumentalizza qualsiasi fatto o avvenimento ma non è in grado di confrontarsi per cercare di risolvere i problemi, è sotto gli occhi di tutti. E sebbene tutti se la rimpallino, è una responsabilità di tutti. Non solo di chi la politica la fa, ma anche di noi cittadini che la politica la subiamo: la nostra indifferenza o a volte connivenza ci rende complici di questo sfacelo. La Sardegna reale, al di là dei discorsi di circostanza, è quella che si è inginocchiata qualche settimana fa davanti a Papa Francesco, che lo ha implorato di non lasciarla sola. E il fatto che il mondo del lavoro sardo si sia inginocchiato davanti a un’autorità religiosa non è, come ha sostenuto un autorevole intellettuale di sinistra, il sintomo della mancanza di una ideologia in cui i lavoratori si possano identificare. No, è il sintomo di una clamorosa sconfitta delle ideologie. Di una sconfitta clamorosa della politica, che non è riuscita a fare il lavoro per cui è pagata lautamente. Di una politica autoreferenziale che passa il tempo a litigare dentro il suo bel palazzo mentre fuori la disoccupazione arriva al 18,6%, e la povertà e la disperazione crescono molto più di quanto possano conteggiare le statistiche.
Mai come in questo momento di crisi le parole pronunciate nel 1949 da Anselmo Contu dovrebbero interrogare e far riflettere: “Ognuno di noi ha una bandiera nel cuore seguita con buona fede e onore, ma tutti dobbiamo ricordare che vi è una bandiera comune consegnataci dal voto dei sardi nella quale c’è scritto Sardegna“.