A differenza di Oxford street, era la sera che a Leicester Square si vivevano le ore più intense.
E se durante il giorno le strade erano trafficate, di notte, in certi momenti, la marea umana che spostandosi da un punto all’altro della London by night, si trovava a transitare nella piazza, sembrava per un attimo ondeggiare, davanti a me, come incerta se procedere o indietreggiare.
Poi riprendeva il suo flusso inarrestabile, come un fiume di lava che superi il gomito di un costone scosceso, puntando finalmente a valle.
Di quella immensa folla, mentre attendevo pazientemente accanto alle macchine di esaudire le eventuali richieste, mi divertivo incuriosito ad immaginare la provenienza, il censo, il livello culturale, il motivo per cui si trovavano a Londra ed in quella piazza, in quel momento.
Se mi rivolgevano la parola, per chiedere un gelato, una bibita o ancor di più un’informazione, allora era persino possibile individuare la loro esatta nazionalità: ogni popolo, a seconda della sua madre lingua, ha una particolare conformazione vocale che manifesta i suoi tratti peculiari nella emissione dei suoni della lingua inglese.
Anche l’abbigliamento e il modo di maneggiare i soldi costituivano un elemento da cui ricavare la provenienza dei miei avventori. Era usuale, ad esempio, che un inglese ti versasse l’importo del gelato (che allora costava trenta pence) rimarcando il pagamento delle singole monete da dieci o da cinque unità, mentre certi arabi preferivano pagare con le banconote, qualche volta senza neppure attendere il resto.
E se gli occidentali, in genere, preferivano soddisfare la loro sete acquistando una lattina di Coca-Cola all’interno del negozio che ospitava le nostre macchine, gli orientali preferivano dissetarsi con l’aranciata che io preparavo giornalmente, di cui potevano osservare il contenuto sin da prima della mescita nei bicchieri di plastica trasparenti, nei contenitori in plexiglass della macchina refrigeratrice.
I nordeuropei consumavano di più, laddove i mediterranei, un po’ per il clima (comunque e sempre più rigido rispetto al loro), un po’ per il cambio sfavorevole, consumavano meno.
Con le dovute eccezioni, ovviamente.
Questi ingorghi umani si verificavano soprattutto in coincidenza con la conclusione degli spettacoli dei numerosi teatri che si trovano nella piazza, principalmente dal venerdì alla domenica. Un altro momento topico, in cui le strade si animavano vistosamente, era quello tra le 23, 00 e le 23,45, cioè nell’ora in cui, a seconda dei giorni, chiudono gli innumerevoli pubs di Londra.
Dalla mia postazione di gelataio mi sorprendevo ad osservare, non senza una certa ammirazione, la disciplina con cui gli Inglesi si mettevano in fila al botteghino per acquistare i biglietti dei vari spettacoli. Altre due cose mi colpirono in quel contesto: la fiducia e l’impassibilità che, perfino persone molto avanzate d’età, mostravano nel prenotare per degli eventi che avrebbero avuto luogo di lì a qualche anno e la determinazione irremovibile con cui le ragazze rifiutavano di farsi pagare il biglietto dagli accompagnatori.
Mi piaceva degli Inglesi anche quella vena d’orgoglio che li faceva sentire uniti nel nome della regina o della patria o più semplicemente ancora della terra dove erano nati loro, e prima ancora , i loro antenati; oppure il trasporto semplice e spontaneo con cui si alzavano in piedi a cantare l’inno nazionale o una canzone popolare all’ultimo bicchiere del Cockney Pride, quando i tre immancabili e puntuali squilli di campanello chiudevano l’orario della mescita sino all’indomani mattina.
Leicester Square costituiva una favorevole attrattiva ed un palcoscenico ideale per una serie innumerevole di artisti improvvisati ma non per questo meno abili e divertenti di tanti sedicenti professionisti dello spettacolo: mimi, giocolieri, cantanti, suonatori, danzatori e show-men vari dalle caratteristiche più disparate.
……..CONTINUA………..