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I Signori della Strada -XVI

Da Albix

london 

 Un giorno si fermò a guardare certi distintivi, che facevano bella mostra in una vetrinetta mobile nel centro del negozio che ospitava la mia postazione di vendita, una ragazza, che mi colpì a prima vista per il suo aspetto piacevole.

Era alta e slanciata ed aveva i capelli rossicci, tagliati corti e pettinati all’indietro, sul collo lungo e sottile; gli occhi verdi, di un colore molto intenso, spiccavano su un viso lentigginoso, con un naso proporzionato, leggermente all’insù.

 

Stava lì, col mento proteso in avanti, come se fosse miope, a ruotare l’espositore per i suoi quattro lati, con sul viso un’espressione poco entusiastica.

Ebbi come un impulso improvviso; mi avvicinai e le porsi uno dei “badges” che stava in basso, appuntato, come gli altri, sul velluto che ricopriva le pareti dell’espositore.

            -“ Questo è forse il migliore”- le dissi consegnandoglielo.

Si voltò e con una voce modulata e soave, dopo avermi osservato per un attimo con la spilla tra le dita lunghe e snelle, disse:

-         “ Sei spagnolo?”

-         “Me lo chiedono in  molti”- risposi io divertito – “chissà poi  perché!”

-         “Un inglese, di certo, non offrirebbe mai una rosa ad una persona sconosciuta!”

Non c’era alcun tono di rimprovero o di fastidio nel suo dire; anzi, mi sembrò di cogliervi una nota di femminile lusinga.

            -“ E tu da dove vieni?”- le chiesi a mia volta.

            – “ Io sono irlandese, ma ultimamente ho vissuto parecchi anni in Spagna e ti assicuro che, a guardarti, sembri proprio spagnolo. Avrai quantomeno un po’ di sangue spagnolo nelle vene, non è vero?”

            – “ Beh, può anche dirsi! La Spagna ci ha dominati per oltre quattro secoli e chi lo sa? La mia lingua ufficiale è comunque l’italiano!”

            – “ Non ne facevo una questione di idioma ufficiale”- disse lei lasciando cadere il discorso.

            – “ Ti va di fare quattro passi?” – ripresi subito io.

            – “ Sì, perché no!” – mi fece lei convinta.

Tagliammo la piazza in largo e attraverso un dedalo di viuzze sbucammo sulla Trafalgar Square. Ci arrestammo al centro dell’immensa piazza, sedendoci sul bordo di una fontana squadrata, i cui alti e ampi zampilli a momenti  facevano il solletico alle fauci dei quattro possenti leoni di pietra che maestosamente la  delimitavano, quasi sorvegliandone i quattro angoli su cui erano situati. Il cielo era terso e il tiepido sole dominava la grande piazza splendente ed allegra, quel giorno, come non l’avevo mai vista prima.

Lungo le panchine, disposte a tratti regolari per tutto il suo perimetro, alcuni pensionati spandevano amorevolmente pane raffermo sbriciolato o semi di mais acquistati in piccoli involucri da dieci pence direttamente in loco.

Al sole brillavano anche le numerose spille che Nancy , come avevo scoperto chiamarsi la graziosa ragazza irlandese, aveva appuntate sulle falde del suo giubbotto di pelle nera. Oltre alla rosa che avevamo acquistato poco prima, ve n’era una che  raffigurava una specie di jolly da carte americane con una lingaccia rossa di fuori; altre riportavano degli slogans o parole d’ordine dei movimenti giovanili allora in auge, qualcuna con disegno accluso, come ad esempio    una piantina verde eptafoliata con la scritta “legalize marijuana”.

            – “ Ti piace fumare?- mi chiese guardandomi con gli occhi semichiusi. Alla mia risposta di assenso mi porse un joint già bell’e pronto!

            – “Cos’è?”- le chiesi odorandolo.

            -“ E’ nero pachistano”- mi rispose facendo scattare il suo accendino. –“Viene dal Kashmir, mi è avanzato da una festa di ieri notte. E’ molto buono, fuma tranquillo!”

Bastarono un paio di boccate per capire che aveva ragione. A quell’ora del mattino, poi.

            – “ Ne hai più tu del negozio!”- dissi ridendo, passandole lo spinello e continuando a guardare le sue spille. . – “ E questa cos’è?! – aggiunsi subito, incuriosito da una banale spilla bianca   su cui spiccava in nero una scritta in lingua tedesca che prima non avevo neppure notato. Vi stava scritto:“Das Mütterrecht”.

            – “ Lasciamici pensare”- fece concentrandosi come per elaborare una risposta complessa. – “E’ il contrario di patriarcato”. E sorrise, consapevole e divertita dalla sua strana spiegazione. Proseguì dopo un ulteriore momento di riflessione: – “ Il patriarcato è il nostro ordine sociale, incentrato sulla figura del padre, mentre nel matriarcato è la madre la figura sociale predominante. “ Das Muterrecht” sta ad indicare  un sistema sociale e giuridico che regolava la vita organizzata in un periodo anteriore alla Grecia dei classici. Non si sa con esattezza quando, ma prima che gli dei che noi conosciamo stabilissero il oro potere nel mondo, vigevano  un’altra autorità e un’altra legge: quelle naturali della vita.”

Fece una pausa come per rendersi conto se la seguivo o forse per darmi modo di interagire.

-         “ Vai avanti” – le dissi passandole ancora lo spinello- “ ti sto seguendo con molto interesse”.

-         “ Non ho altro da aggiungere, in realtà” – fece lei tra buffetti di fumo e tornando poi ad aspirare voluttuosamente. – “ Piuttosto c’è da precisare che la contrapposizione reale non è tra uomini e donne, tra padri e madri, ma bensì tra libertà e schiavitù, tra diritto naturale e diritto imposto da un’autorità costituita dagli uomini. La stessa contrapposizione che, su un altro piano, si pone tra l’amore materno, disinteressato e spontaneo, e quello paterno, egoista e calcolatore che, piuttosto che amore sembra essere la proiezione dei desideri e delle aspirazioni represse del padre nei confronti del figlio ed è finalizzata all’esigenza di lasciare a qualcuno le proprietà ed il potere acquisiti nel mondo, possibilmente, per accrescerle ulteriormente. 

 Questo fa degli uomini dei pagliacci scontenti. Il Muterrecht è un’alternativa concreta a questo mondo sempre più egoista e materiale; è un grido d’amore, un anelito di libertà!” 

Tacque, come se quelle grida di amore e di libertà le avesse lanciate verso il cielo ed ora s’aspettasse un’eco che le rimandasse indietro o magari una rispota. Piegò le ginocchia verso il petto e reclinandovi sopra il capo, mentre le cingeva con le sue lunghe braccia sussurrò:

 - “Ad ogni modo io vivo lo stesso la mia vita; ho tanti amici che mi aiutano a capire il mondo e poi, io amo il sole……”

Il riflesso dei raggi dorati sul suo viso, nei suoi occhi luminosi, mi fecero pensare che quel suo amore fosse in qualche arcano senso contraccambiato.

La fissai a lungo negli occhi. attraversare il suo sguardo era come volare sulle ali di una nuova, emozionante percezione, in un mondo fantastico mai neppure sognato, dove le ordinarie leggi dell’armonia, dei colori, delle dimensioni sembravano essersi magicamente scomposte in infinite, microscopiche unità; e lo spazio e il tempo segnavano un nuovo ordine, fusi in un sistema incredibilmente reale, assurdamente vero, paradossalmente plausibile, concepito non solo più con il cervello, ma con tutto il corpo; dove ciò che doveva essere statico appariva in una palpabile sequenza di continue mutazioni, mentre  fiumi, laghi e mari parevano immoti ammassi di cristalli dai riflessi abbaglianti ed eri tu, non loro, a fluttuare perennemente sospeso, gas, fluido e materia, pensiero ed azione, raziocinio ed inconscio, dio e demone, coraggio e paura, appagamento e curiosità, dolore e gioia, riso e pianto, odio e amore, nell’Universo del Tutto Infinito.


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