Nel 1840 lo descrivevano così: giacca sdrucita, cappello stracciato, calzoni sbiaditi, grandi occhiali. Ogni giorno, un’ora prima del tramonto, allestiva all’aperto il suo teatrino fatto di panche di legno. Da uno scartafaggio leggeva, cercando i toni più epici, emozionanti racconti ricavati soprattutto dai poemi cavallereschi di Torquato Tasso e Ludovico Ariosto. Rinaldo era l’eroe preferito dalla piccola folla che si estasiava pur non comprendendo tutte le parole. Nel repertorio non mancavano le storie di briganti. Carlo Tito Dalbono segnalò un cantastorie al Molo – zona prediletta dagli artisti girovaghi, che si spingevano fino al Casale di Posillipo – circondato da almeno duecento ascoltatori.
In uno studio di Benedetto Croce “I Rinaldi o i Cantastorie di Napoli” si legge che nel 1876 a Napoli ancora girovagavano tre cantastorie: il più autorevole Cosimo Salvatore operante nella zona del Molo, il secondo Rinaldo ricordato da Ferdinando Russo nel “’O cantastorie” vagolante per Porta Capuana ed un terzo di cui si ricorda solo che vagabondava nella zona del Carmine. Il repertorio classico era quello del teatro di marionette, ma in una forma assai più rispettosa del testo. Più tardi, i cantastorie si ispirarono pure a episodi di cronaca locale, fatti di passione e di sangue. I momenti cruciali del fattaccio erano disegnati su cartelli grandi abbastanza da poter essere goduti a distanza. I disegni – forse dei fumetti – talvolta venivano stampati su foglietti in vendita.