Secondo ragione si dovrebbe ritenere che la notte stia finendo. È terminata la lunga salita per le balze dell’Etna avvolte nella qualità notturna di un buio stellato con frammenti di luce. L’alba appare silenziosa all’orizzonte coi suoi chiarori azzurri. L’uomo è sul filo esatto del cratere. Può chiamarsi il filosofo presocratico Empedocle o l’inglese Patrick Brydone che guardava e pensava nel 1770 o un viaggiatore dall’estro vagante della fine del nostro millennio. L’aria comincia appena a schiarirsi nello spazio immenso del quale a fatica si scorgono i confini nella calma senza suoni. Mare Mediterraneo e terre sono nella penombra ancora indivisi, come furono nel paziente corpo del Caos, e attendono che la luce della prima alba li separi.
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Le stelle brillano ancora e segnano il misterioso legame cosmico tra il loro fuoco sidereo e quello ipogeo entro l’Etna a quindici chilometri di profondità. Una stessa fine forse li attende nel catasto magico dell’universo. A poco a poco le stelle si spengono, da est avanza la luce ed è un assistere alla biblica creazione del mondo. Dai tremila metri del vulcano nell’immenso silenzio si scorge il tremolio lucido del mare azzurro che si separa dall’immobilità delle rocce nere. Si tace, immobili. Forse non siamo più capaci di sopportare la perfezione. Un culbianco, che stava su una roccia fissando l’oriente e l’avanzare dell’alba, allorché chiara la vide volò ad ali spiegate verso il cono terminale del monte, avanzò lungo una navata di rocce nere, le unghie levate e tese nell’economia della difesa. Poi lo zampettio di qualche martora, leggerissimo, pone fine al silenzio delle vette.
[tratto da Catasto magico di Maria Corti, Einaudi]
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