Quando si pensa alla lotta tra il bene e il male, tra il poliziotto buono, ma comunque tormentato, e il delinquente cattivo, tra la legge e chi invece tenta di infrangerla, la prima persona che viene in mente è Michael Mann, colui che ha trasformato il genere divenendone capostipite. Nel vedere Daniel Auteuil, attualmente giurato a Cannes accanto a celebrità del calibro di Nicole Kidman, Christoph Waltz e Steven Spielberg, e Mathieu Kassovitz giocare al poliziotto buono e al fuorilegge cattivo, il confronto con gli Al Pacino e Robert De Niro di Heat – La sfida è qualcosa di cui non si può fare a meno, nonostante le differenze siano assolutamente evidenti, e infatti i vincitori non sono di certo i francesi. Di paragoni con il cinema di Michael Mann se ne possono fare parecchi, da Manhunter a Nemico pubblico, ma la crew di Michele Placido non ne uscirebbe certamente vincente. Il punto di partenza è senza dubbio il polar, genere tipicamente francese in cui personaggi appartenenti al modo poliziesco si muovono nelle atmosfere cupe e introspettive del noir. Placido, che è sempre stato un buon interprete e non un eccellente regista, il lavoro lo porta a compimento superando parecchi ostacoli e donando alla sceneggiatura di Cédric Melon e Denis Brusseaux, tanto semplice quanto banale, tutto quello che era possibile, anche un cammeo. Ne Il cecchino i rimandi sono numerosi, non perché ci sia un alto tasso di citazioni, ma perché i temi e il modo in cui vengono affrontati e trattati sono già stati rappresentati da altri in maniera più incisiva; basti pensare al ruolo della lealtà e del tradimento all’interno di un gruppo di malviventi che ricorda tanto il primo Tarantino, o il faccia a faccia tra la legge e i suoi nemici, o ancora il ruolo delle donne nella vita dei fuorilegge, e qui non è possibile ignorare il confronto con gli ultimi film di Mann, da Miami Vice a Nemico pubblico.
Nonostante la pellicola di Placido sia assolutamente francese, negli interpreti così come nelle ambientazioni e nella sceneggiatura, i contatti con un mondo non transalpino appaiono evidenti; il regista poi è italiano e ha arruolato per il suo progetto anche la figlia Violante e Luca Argentero. Il cecchino si abbandona completamente ai suoi interpretati, il trio Auteuil-Kassovitz-Gourmet, e fa di loro la linea narrativa principale, senza la quale naturalmente non esisterebbe nessun film; sono i protagonisti che tengono in piedi la storia, non viceversa. Sono le personalità che rendono il lavoro di Placido degno di nota, non la sceneggiatura o la regia. Nei colloqui e negli incontri-scontri tra il cecchino, il poliziotto e il traditore c’è quindi il nucleo del lungometraggio, un lavoro che sembra essere un poliziesco puro nella prima parte, ma che nella seconda, fondendo il noir al thriller più estremo, prende un’altra piega. Ed è lì che i nodi vengono al pettine, perché il confronto con Mann appare inevitabile. Il paragone ci porta naturalmente alle sequenze di azione, e qui ogni tipo di comparazione vede il regista americano trionfare su quello italiano, comunque abituato a questo tipo di scene se consideriamo lavori come Romanzo criminale o anche il più recente Il grande sogno.
Se però sfidi l’intoccabile, sfida naturalmente non ricercata da Placido, il rischio di cadere è sempre dietro l’angolo, e infatti di capitomboli se ne vedono parecchi. Da un lato la sfera privata, gli scheletri del passato, ferite non ancora rimarginate che si risolvono nel confronto-scontro tra i personaggi di Auteuil e Kassovitz, quelli che sembrano ricordare i migliori Pacino e De Niro, e dall’altra parte invece la violenza, divenuta ormai patologia e disturbo psichico, il tradimento e il mistero. Tutti elementi destinati a incontrarsi e fondersi insieme. È però la prima traccia tematica a fornire spunti di riflessione ed eventuali confronti, quella probabilmente più sentita e più convincente, quella dei due protagonisti. Nel passato e nell’impossibilità di andare avanti si nasconde il cuore del rapporto tra il poliziotto senza pace e il glaciale cecchino, in cui la vendetta sembra essere l’unica alternativa.
Nonostante le critiche e i limiti della pellicola, forse più oggettivi che soggettivi, il regista e i suoi attori il lavoro lo portano a casa con la consapevolezza che più di così non si poteva fare. Il cecchino quindi mostra ai suoi spettatori tutto quello che è capace di essere, un polar che quando guarda a casa propria appare più che dignitoso. Placido si dimostra ancora una volta uno dei pochi cineasti italiani, forse l’unico, in grado di muoversi tra diversi generi, molti dei quali poco praticati nel nostro paese, anche se i risultati appaiono essere altalenanti. Quello che appare chiaro è che se Placido continuasse a percorrere la strada di Romanzo criminale, un lavoro tanto nazionale quanto affascinante, i successi sarebbero maggiori delle cadute, anche se dignitose come nel caso de Il cecchino.