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Il clima del nostro bel pianeta, conflitti etici e…

Creato il 10 luglio 2012 da Giornalismo2012 @Giornalismo2012
clim

- Di Francesca Pongiglione

A prima vista non parrebbe di trovarsi di fronte a un dilemma morale di eccessiva difficoltà. Se consideriamo la sopravvivenza del pianeta un “bene”, un buon obiettivo per l’umanità contemporanea, potremmo tracciare con apparente sicurezza una demarcazione tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. La lotta ai cambiamenti climatici, la salvaguardia delle natura e delle sue risorse, la preoccupazione di lasciare il pianeta in buone condizioni per le generazioni che verranno – tutto questo ci sembra bene. Facile di conseguenza individuare il “male”. Ma è davvero così semplice? E se lo è, sono solo gli interessi economici in conflitto che impediscono ai valori dell’etica ambientale di essere accettati e adottati da tutti, e alla diplomazia di raggiungere finalmente un trattato vincolante sul taglio delle emissioni?
La risposta a queste domande è meno chiara del previsto. Come diversi studi accademici hanno notato, le rappresentanze delle diverse nazioni si appellano a principi eticamente condivisi e comunemente riconosciuti come giusti – valori morali che, se adottati come principi base a cui ispirare l’azione politica, implicano tuttavia scelte molto diverse. Ed ecco che la distinzione tra giusto e ingiusto inizia a sfumarsi, come già molte volte nella storia è stato: pochi sono i casi in cui possiamo indicare cosa è “bene” con una certa sicurezza, molti di più sono quelli in cui il bianco e il nero si confondo nel grigio.
Inizialmente, con l’istituzione dell’UNFCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) nel 1992, si è preso come principio base su cui iniziare la discussione sulla situazione ambientale quello di “responsabilità comuni ma differenziate”: i paesi occidentali si sono seduti al tavolo delle trattative ammettendo le proprie colpe, e hanno proposto, con la prima versione del Protocollo di Kyoto del 1997, tagli delle emissioni per i 37 paesi del mondo ritenuti i maggiori responsabili. Ma questo inizio per certi versi promettente, non ha portato, ad oggi, ancora a nessun risultato sostanziale. E questo perché i diversi paesi chiamati a discutere si sono appellati al principio dell’equità, valore etico che ha mostrato una varietà tale di sfumature da fare incagliare la diplomazia. Per i paesi emergenti l’equità si traduce nelle pari opportunità. E non si tratta semplicisticamente del desiderio di industrializzarsi o arricchirsi (desiderio molto occidentale, e che solo con un certo imbarazzo i paesi industrializzati potrebbero condannare), si tratta di questioni eticamente molto più rilevanti: garantire l’accesso all’acqua potabile, la diffusione dell’energia elettrica, la creazione di infrastrutture che possano dare ai popoli qualche possibilità in più di sopravvivenza. Ma poter raggiungere questo grado di sviluppo senza incrementare (e di molto) le proprie emissioni è pura utopia.
I paesi industrializzati rispondono a queste (legittime) richieste con una perplessità: se l’India, il Brasile, ma soprattutto la Cina proseguono con questo regime di emissioni, la situazione è destinata a precipitare nel giro di poco. Nell’equità loro leggono la necessità di un impegno comune, anche se differenziato. Ci stiamo avvicinando all’irresolubile dilemma descritto su Science da Garrett Hardin nel lontano 1968 nel saggio “The Tragedy of the Commons” – la tragedia dei (beni) comuni? Hardin poneva l’esempio di un terreno comune adibito a pascolo. Ogni allevatore ha un interesse ad allevarvi il maggior numero di animali per incrementare il proprio guadagno. Eppure, se tutti immettono nel pascolo un numero troppo grande di animali, il terreno diverrà presto inutilizzabile, e tutti gli animali moriranno. In questo caso, è come se ogni paese fosse un allevatore. Nel terreno hanno abbondato per anni gli animali occidentali. Adesso però anche i paesi in via di sviluppo iniziano ad averne molti. Che si fa? Beh, gli occidentali potrebbero ridurre i loro animali, o almeno cercare di non aumentarli troppo, lasciando spazio a quelli dei paesi emergenti. Che però a loro volta non devono mettercene troppi, se no il terreno collassa comunque. Come si vede, il gioco di equilibri è tutt’altro che facile, perché non è facile, a monte, rintracciare tra i concetti di equità che si contrappongono un “giusto” o un “ingiusto”. Una sfida interessante per la ricerca nel campo dell’etica ambientale sarebbe quella di provare a capire quale gerarchia di valori conduce verso la salvaguardia dell’ambiente e quale dei concetti di equità in conflitto possa divenire quello prevalente su cui intavolare le trattative.
Ma cosa accade nel frattempo? Ancora non si è trovata una soluzione, complice la presenza di tanti altri problemi urgenti che il mondo sta affrontando (AIDS, guerre, crisi economiche…), e che fanno scivolare in secondo piano un problema a lungo termine come quello del cambiamento climatico. L’Europa, per ovviare a una situazione di stallo, ha adottato una strategia interessante con i suoi obiettivi per il 2020 (taglio del 20% delle emissioni rispetto a quelle del 1990; aumento del 20% della produzione di energia da fonti rinnovabili; aumento del 20% dell’efficienza energetica), che potrebbe rompere il circolo vizioso. La strategia dell’azione “dal basso verso l’alto” – ovvero, da un lato non aspettare la risoluzione dall’alto, specie quando questa tarda ad arrivare, dall’altro lato puntare sull’effetto-contagio, offrendo un impegno in prima persona non vincolato al comportamento degli altri agenti. Tutto sommato, si può azzardare a puntare sul lato migliore dell’umanità ed essere i primi a fare un passo verso un obiettivo importante come la lotta al cambiamento climatico anche senza garanzie di reciprocità da parte degli altri. Tanti studi sul comportamento mostrano che gli esseri umani tendono a “reciprocare” i comportamenti, specie se vi rintracciano alla base un’etica che condividono. C’è da sperare che questo meccanismo tenda a ripetersi quando non sono persone fisiche a interagire, ma colossi nazionali da milioni (o miliardi) di abitanti.


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