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Regola che vale tanto più per i mass media: per questa ragione il titolo di un articolo di moda del Corriere della Sera di qualche giorno fa è emblematico di come si possa predicare bene (anche se, persino sulle prediche, il Corriere avrebbe di che vergognarsi, vedi alcuni editoriali di Piero Ostellino) e razzolare male.
Pagina 27, titolo: «Kate (un po’ appesantita), la vernice e le paillettes. Tutti i feticci di Vuitton», dove la Kate «un po’ appesantita» e rubricata tra i feticci di Vuitton assieme a vernice e paillettes è Kate Moss. Come spesso accade, il titolo non rende giustizia al pezzo, che – pur nella leggerezza dei toni che si addice a un articolo di moda – non addita i chili in più (rispetto ai normali canoni da anoressia delle passerelle) della Moss come una colpa, e anzi sottolinea l’autoironia di una donna che, a 37 anni, si mostra capace di prendersi anche un po’ in giro: «Kate Moss chiude fumando in short, un po’ maitresse, appesantita, è vero. Ma sta al gioco e per questo è da applauso». Nella traduzione per il titolo quell’aggettivo, «appesantita», diventa un dito puntato: eh, cara Kate, lo sai che sei un po’ appesantita eh? vabbè, comunque come feticcio ci vai bene anche così, però insomma... E il corpo di una donna viene associato a «vernice e paillettes», come un oggetto di lusso da mettere in vetrina. Ma perché, anziché strizzare l’occhio al pettegolezzo da bar (guarda lì la Kate, eh non è più quella di una volta...), chi fa titoli del genere non si pone il problema (oltre che della fedeltà all’articolo) della propria responsabilità nella comunicazione di contenuti? Poi, magari, si fanno campagne contro l’anoressia o si invitano stilisti ed esperti in marketing ad utilizzare donne normali invece di scheletri semoventi sulle passerelle. Ma un titolo così vale dieci campagne e rivela quanto sia radicata una cultura che fa del corpo delle donne un mero ornamento che, in quanto tale, deve soddisfare i canoni vigenti. E poi ci chiedono che motivo abbiamo di scendere in piazza.
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