di Giorgio Masiero*
*fisico
In un precedente articolo ho mostrato che le facoltà dell’anima umana non sono un epifenomeno e in un altro che esse segnano una discontinuità rispetto a quelle animali. Oggi mi interrogherò sul destino dell’anima umana.
A Roma, in Castel Sant’Angelo, nell’urna che raccoglie le ceneri di Adriano, della moglie e del figlio, un epitaffio scritto dallo stesso imperatore poco prima di morire inizia così:
“Animula vagula, blandula, “Piccola anima vagante e delicata,
hospes comesque corporis, compagna e ospite del corpo,
quae nunc abibis in loca ora partirai verso luoghi
pallidula, rigida, nudula, pallidi, freddi e spogli,
nec, ut soles, dabis iocos…” ove non avrai più i soliti giochi…”
La radice latina –ula, presente tre volte nel primo verso e risuonante altre due nel quarto, interpreta poeticamente l’enigmatica lievità dell’anima degli uomini, ma allo stesso tempo le facoltà sublimi di cui essa sola è sacrario in un Universo per il resto muto! Ma in che cosa consiste il destino dell’anima umana? Essa morirà col corpo o gli potrà in qualche forma sopravvivere?
Cominciamo col chiederci: se è evidente che il legame tra l’anima ed il corpo è inestricabile, come si può solo ritenere razionale l’ipotesi della continuità esistenziale della prima alla morte del secondo? A quest’obiezione dei materialisti di ogni epoca, io non saprei meglio dire delle parole usate da Cicerone duemila anni fa: “Numerosissimi sono coloro che […] impongono alle anime la pena di morte […]. Eppure non esiste altro motivo perché a loro sembri incredibile l’immortalità dell’anima, se non il fatto che non riescono a intendere e a raffigurarsi col pensiero la natura dell’anima priva del corpo. Come se invece, dell’anima dentro il corpo, fossero in grado di comprendere la natura, la forma, le dimensioni, la collocazione! […] Per me invece è diverso: quando penso alla natura dell’anima, trovo che sia molto più difficile, molto più oscuro raffigurarmi l’idea dell’anima dentro il corpo, in una sede ad essa così estranea, che non immaginarla, una volta uscita dal corpo, nella libertà del cielo, quasi finalmente fosse giunta nella sua vera casa” (“Tuscolanae disputationes”).
I greci ci hanno insegnato che la questione è sensata, ma indecidibile dalla sola ragione. Significativamente, il più razionalista ed enciclopedico di loro – Aristotele –, fu prudente sull’argomento: “Se rimanga qualcosa dopo [la morte del] l’individuo, è una questione ancora da esaminare. In alcuni casi, nulla impedisce che qualcosa rimanga: per esempio, l’anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma solo la parte intellettuale; perché è forse impossibile che tutta l’anima sussista anche dopo” (“Metafisica”). La questione rimarrà sempre aperta sul piano empirico perché: “Nessuno viene di là che ci dica la condizione dei morti, che ci riferisca i loro bisogni, che tranquillizzi il nostro cuore, finché giungiamo anche noi a quel luogo dove sono andati essi… Vedi, non c’è chi porta con sé i proprio beni, vedi, non torna chi se n’è andato”, si legge nel “Canto dell’arpista” contenuto in un antichissimo papiro trovato nella tomba del faraone Antef. Con tutto ciò, la risposta sulla struttura dell’anima è aperta, come aperto ai due corni di un aut aut radicale sta il suo destino, oggi come 4.000 anni fa. Seneca scrisse: “La morte? o fine o passaggio”, condensando così le due concezioni opposte: la materialistica, secondo cui la morte è la fine di tutto, e la spiritualistica, per la quale la morte è passaggio ad altra vita.
Il fatto è che la questione della morte non è una tra le tante, ma la domanda delle domande, tanto che i greci demandarono la risposta alla regina delle scienze, la filosofia, che concepirono anche come “melete thanatou” (Platone, Epicuro), ossia come esercizio per imparare a morire. Non sapendo della Creazione, essi non avevano un dio cui chiedere polemicamente conto della morte riservata all’uomo, come invece poteva protestare l’ebreo Giobbe: “In pochi palmi, [o Dio], hai misurato i miei giorni e la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come ombra l’uomo che passa; solo un soffio che si agita… Allontana da me i tuoi colpi: sono distrutto sotto il peso della tua mano” (“Libro di Giobbe”). Alla fine, l’esercizio ellenico si risolse in tecniche consolatorie contro l’angoscia della morte. Con due opposte ricette. Muovendo dall’idea di Democrito che l’anima, come il corpo, è un aggregato di atomi e quindi destinata come quello alla dissoluzione, Epicuro scrisse con baldanza: “Abituiamoci a pensare che nulla per noi è la morte, poiché gioia e dolore risiedono nella sensazione; la morte invece è privazione della sensazione. […] Stolto è colui che dice di temere la morte, perché non proverà dolore quando essa si sarà presentata, ma intanto si avvelena la vita nell’attenderla! La morte non è nulla per noi, dal momento che quando noi siamo, la morte non c’è, e quando c’è la morte, noi non siamo più” (“Epistola a Meneceo”).
Sul versante filosofico opposto, la preparazione alla buona morte avviene nell’umile speranza che essa può essere la porta che apre all’anima del giusto il ritorno alla casa, donde quella s’era involata quando, alla nascita, si era congiunta al corpo: una casa dove ritroverà la libertà e la comunione con le anime di tutti i giusti della terra. Nella testimonianza di Platone, Socrate prima di morire arringa i suoi giudici ingiusti e consola i suoi discepoli affranti con queste parole: “Se vere sono le cose che si dicono, la morte è come fare un viaggio, che da qui porta verso un altro luogo, dove ci sono tutti quanti i morti: qual beneficio mai, signori giudici, potrebbe darsi superiore a questo? Se infatti, giunto all’Ade e ormai affrancato da voi qua che vi dite giudici, trovassi là dei giudici veri, proprio coloro di cui si racconta – Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo e gli altri semidei che nella loro vita furono giusti – sarebbe poca cosa questo viaggio? E, ancora, a quale prezzo uno di voi non sarebbe disposto a frequentare Orfeo e Museo, Esiodo ed Omero? Quanto a me, vorrei essere morto molte, mille volte” (“Apologia di Socrate”).
Molto diverso, perché sapeva di avere un Signore Cui affidare la sua anima, poteva essere l’atteggiamento dell’ebreo: egli godeva del privilegio di un Dio, che Si era rivelato parlando direttamente ai suoi patriarchi, ad Abramo e a Mosè. Il credente si sa nulla, meno di polvere, ed affida la propria resurrezione all’imperscrutabile volontà del suo Creatore: “Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, [Signore], risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre” (Isaia).
Con il cristianesimo, la rivelazione di Dio fa un salto a causa degli accadimenti dell’incarnazione del Figlio, della Sua morte e risurrezione in anima e corpo. Il messaggio diretto di Dio, nel quale si comunica la salvezza per tutti gli uomini, attraverso la risurrezione congiunta del corpo e dell’anima, irrompe nella storia. San Paolo non parla come un filosofo che argomenta, ma come un testimone oculare che in un tribunale riferisce sotto giuramento ciò che ha udito e visto: “Vi ho trasmesso dunque quello che anch’io ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Pietro e quindi ai Dodici. In seguito, apparve a più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me, che sono un aborto. […] Se Cristo non fosse risuscitato, allora vana sarebbe la nostra predicazione e vana sarebbe la vostra fede. […] Ora, invece, la verità è che Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (prima Lettera ai Corinti). Con il cristianesimo, insomma, la questione filosofica indecidibile dell’immortalità dell’anima è superata e risolta in senso positivo dal fatto storico della risurrezione in anima e corpo di Gesù e dall’immanenza ontologica di Dio che si è avverata storicamente duemila anni fa nell’Incarnazione e che si ripete ogni giorno nell’Eucaristia. L’immanenza, come si sa, è la presenza della divinità nella Natura ed è il concetto metafisicamente opposto alla trascendenza, che è lo stare della divinità fuori dell’Universo e dello spazio-tempo. Ebraismo ed islam hanno di Dio la concezione di un essere assolutamente trascendente, la cui presenza nel mondo avviene solo, misteriosamente, nella parola ai profeti e nei riti liturgici. Nel cristianesimo ciò non basta: Dio si fa uomo nella figura storica di Gesù. In Cristo, “Dio si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio”, scrisse il teologo Sant’Atanasio (“Sull’incarnazione del Verbo”). Nel Natale i cristiani celebrano l’immanenza di Dio, la Sua Incarnazione.
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”: dopo il Natale, l’immanenza tra uomo e Dio si ripete ogni giorno nell’Eucaristia. “Rimanere” non è un incontro fugace, ma un dimorare eterno, un modo di essere. L’uomo esiste in Cristo e Cristo nell’uomo. Al di fuori di Cristo manca il fondamento dell’essere: “Senza di lui è il nulla” (Giovanni). Resta il vuoto, l’effimero, il nichilismo: la morte di tutto, appunto. Più ci penso, più la cosa mi sembra inimmaginabile: dal punto di vista logico trovo una sola spiegazione, che Dio è Amore, un amore infinito.